La rivoluzione senza Italia del #metoo

Una sensazione da punto di non ritorno.
Come nella favola di H.C. Andersen − I nuovi abiti dell’imperatore – a un certo punto è bastato un grido: quello delle prime donne dello Hollywood Star System, che hanno avuto il coraggio di uscire allo scoperto e vuotare un sacco pieno di vergogna, rabbia, frustrazione, paura e incertezza. Da lì, pochi giorni dopo, il primo post con l’hashtag #metoo inizia a girare e in un paio di notti diventa una valanga. Si aggiornano le cifre dei conteggi delle migliaia e migliaia di donne occidentali che hanno trovato la forza della moltitudine per raccontare la propria storia. Che sia quella di una molestia su un autobus, o di uno stupro, tante mani si sono alzate e il fiume è diventato una piena, un avvenimento che è impossibile ignorare. Grazie ai social network le donne occidentali si sono finalmente incontrate, pur senza vedersi mai, e nell’onda sororale e calda del dire “anch’io” hanno formato una sorta di alleanza, con la forza che hanno le donne quando si stufano e non riescono più a far passare nulla.C’era un prima dove la lingua era avvilita dalla paura, e dalla vergogna, e ora c’è un dopo dove ognuna di noi non si sentirà mai sola ma avrà saputo una volta per sempre che quello che le capita è comune, condiviso, incolpevole sempre e comunque, da contrastare sempre e comunque. E forse dal 99.9% di donne che fino a ora hanno taciuto, potremo averne 50% che gridano la loro rivoluzione d’ottobre, proprio a cent’anni da quella russa.

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La generazione perduta dei pornoragazzini

Tutto quello che non sappiamo sulla pornografia in rete raccontato in un saggio fondamentale appena pubblicato in Svezia

È uscito in Svezia un libro dal titolo “Droga visiva – su pornografia in rete, bambini e ragazzi” [“Visuell drog – Om barn, unga och nätporr”, Kalla Kulor Förlag, 2016] che sarebbe veramente utilissimo tradurre in italiano. Le scrittrici sono due centrali termonucleari: Maria Ahlin − giovanissima presidente dell’associazione Freethem contro il trafficking − e Ulrica Stigberg − pastora della Fryhuset, il più importante e vitale centro giovanile di Stoccolma.
Per scrivere questo libro Ahlin e Stigberg hanno scelto di fare un passo indietro rispetto a una prospettiva morale sulla pornografia, preferendo concentrarsi solo sugli effetti del suo consumo a danno della salute di giovani e giovanissimi, sia a livello neuropsichiatrico che fisico e sociale. Hanno intervistato esperti di ogni tipo: professori universitari, neurologi, criminologi, commissari di polizia, sociologi, urologi, psicologi, ricercatori, personaggi televisivi. Ma soprattutto, hanno parlato a lungo con decine di ragazzi e ragazze, che hanno (finalmente) trovato orecchie adulte per esternare le problematiche che né genitori né insegnanti sanno affrontare, e hanno scoperto che nessuno di loro aveva mai avuto la possibilità di parlare con un adulto su questo tema. Il quadro che ne emerge è molto inquietante e con forti ripercussioni sociali.

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Il posto di ognuno

[Un breve resoconto emozionale per La poesia e lo spirito]

Quasi le 8 di sera, la luce iniziava a sbiadire e anche i cassonetti della differenziata sfumavano nel grigio dell’asfalto. Svuotavo i miei sacchetti e sul finire arriva una minuta ragazza straniera con un viso dolcissimo, accompagnata dal suo bimbo. Con dita delicate ha preso a controllare se ci fosse per caso qualche contenitore con cauzione, da portare al supermercato per ottenere degli spiccioli in contanti.
Un secondo prima di risalire in macchina ho sentito un fischio di freddo dietro i lobi delle orecchie, e ho preso il portafoglio per darle l’equivalente di due Euro, così, mentre era lì a fare le vocine giocose al suo bambino. E quando glieli ho dati, mi ha preso la mano per baciarmene il dorso, dicendomi una cosa che non ho capito, piena di sorrisi, mentre il bimbo mi soffiava bacetti dalla punta delle dita e io già cominciavo a piangere.
Mi ha baciato la mano per due Euro da niente. Che vergogna infinita questo mondo dove senza meriti nasciamo nel posto giusto, solo per caso, e ci sfiliamo due Euro miseri da un portafoglio.

[Un invito di ascolto qui]

A cosa (non) serve l’omeopatia

Tutti dicono che il proprio gatto sia intelligentissimo, che gli manchi solo la parola, che capisca tutto. Ma il mio è una spanna sopra la media. Decisamente. Perché lui −pensate− vede che io prendo un tubetto di granuli omeopatici, ne estraggo tre, li lascio sciogliere nell’acqua della sua ciotola (che non vede, perché è nel lavello di cucina, ma insomma) lui la beve e guarisce dai suoi disturbi. Perché? Ma come perché, per l’effetto placebo, suvvia, è noto. Questo è l’unico effetto dell’omeopatia, no?
Mi concedo un inizio scherzoso per questo articolo, perché lo scrivo con determinazione ma anche leggerezza: ci sono aspetti della fisica quantistica che sono ancora in fase di studio ed evoluzione, e finché non saranno pienamente sviluppati non avremo la cosiddetta “dimostrazione scientifica” che i farmaci omeopatici contengano principi attivi. Nel frattempo, io curo decine di malesseri da anni, guarendone. Per questo ho deciso di scrivere questo articolo: spero di riuscire a fare un po’ di chiarezza sulla base delle mie esperienze e delle mie ricerche.

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Chi ha paura della Svezia?

In questi giorni la Svezia è di attualità dopo che Donald Trump ha riportato come veritiere alcune dichiarazioni rilasciate a Fox News da un certo Nils Bildt, un mitomane svedese che ha spacciato come notizie la propaganda contro immigrazione e Islam condotta dal partito “Sverigedemokraterna” (Democratici Svedesi), una formazione politica nata come ricettacolo di gruppi neonazisti e di ispirazione nazionalista, molto simile alla nostra Lega Nord.
Il Ministero degli Esteri svedese ha deciso di ribattere pubblicando un significativo ed esaustivo comunicato stampa in inglese: “Facts about migration and crime in Sweden” dove demolisce alcune delle più diffuse false opinioni/notizie attualmente in circolazione, sulla base di fatti e statistiche rilevate attraverso canali ufficiali, in primo luogo quelle delle Forze di Polizia.

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Un uomo che ama le donne: l’inferno della prostituzione raccontato dal poliziotto svedese Simon Häggström

Se potessi costringere tutti gli abitanti adulti del pianeta a leggere un libro per il 2017, sarebbe “Skuggans lag” [La legge dell’ombra, pubblicato dalla casa editrice svedese Kalla Kulor Förlag e non ancora tradotto in italiano – peccato! – ma disponibile in inglese su Amazon] scritto dal poliziotto stoccolmita Simon Häggström. In solo poco più di quattrocento pagine riesce a farci vedere un mondo nascosto, che sarebbe troppo comodo e autoconsolatorio chiamare osceno. Nelle sue narrazioni di esperienze vissute attraverso lunghe notti squallide in macchina a cercare di fermare i clienti delle prostitute, Häggström riesce a raccontare la storia di milioni di donne, di millenni di storia, di miliardi di violazioni. Un libro faticoso, ovviamente, ma imperativo, necessario, squarciante.

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L’infinito polare: “Antarktis” di Gerry Johansson

Torno a parlare di fotografia per una nuova personale in esposizione alla Elf Galleri di Göteborg. Sotto i suoi selettivi riflettori il fotografo svedese con più riscontro internazionale: Gerry Johansson, con una mostra dal titolo “Antarktis” (“Antartide”).
Si tratta di immagini stampate da negativo ottenuto in analogico in grande formato (8×10 pollici) impresse durante un lungo set di sei settimane in spedizione sull’Antartico. Condizioni proibitive tra temperature polari e venti squassanti, che Johansson ha affrontato con grande caparbietà, aspettando il momento giusto per uscire e scattare in qualsiasi direzione. La composizione dell’immagine è uno degli elementi più appaganti di questa collezione, con immagini che sono sempre quel millimetro diverse da come le avremmo scattate noi. Un millimetro, davvero, che fa tutta la differenza tra un’immagine “pulita e nitida”, e un’opera d’arte.

Durante il nostro colloquio non mi sorprende ma come sempre mi colpisce la grande umiltà (pregio o difetto nazionale degli artisti svedesi) con cui Johansson ha candidamente affermato che gli scatti esposti sono belli, certo, ma scelti tra mille possibili inquadrature poi scartate. Quasi a sminuire – con timidezza – l’imponente fascino del suo lavoro.
E questa cifra di umiltà si riflette nella sua narrazione fotografica dell’Antartide: il nostro essere piccoli e marginali rispetto alla natura, che appare infine così inafferrabile, intoccabile. L’umiltà del nostro essere piccoli, che ci dovrebbe far sentire fragili, vulnerabili. Ci riporta al “Dialogo della Natura e di un Islandese” dove Madre Natura non è matrigna quanto indifferente a noi, ignara delle nostre esistenza a causa dei meccanismi maggiori della sua grandezza. Dovremmo conservare questa sensazione di timore rispettoso, dovrebbe guidarci nelle scelte quotidiane legate agli idrocarburi. Alcune foto hanno come sfondo delle nuvole scure, un presagio di tempo funesto: dovremmo prenderle come un monito alla nostra scelleratezza.
Ma una delle cose che colpisce di più di queste immagini è che nella maggior parte dei casi non abbiamo riferimenti dimensionali per la comprensione di ciò che vediamo. Una cresta di neve scolpita dal vento potrebbe misurare un metro come cento, uno sperone di roccia potrebbe essere di qualche centimetro, o grande come una nave. Le immagini della natura antartica sono tanto immani quanto incommensurabili, e nella contemplazione siamo costretti a compiere un’operazione difficile: rinunciare a poterle valutare, a sapere ciò che stiamo guardando, a riconoscerlo. E la difficoltà sta nel riuscire a non sentirsi spiazzati dall’impossibilità a una classificazione, e quindi al giudizio, e quindi al controllo e in ultima analisi al dominio su ciò che vediamo. Perdiamo la consolazione del possesso di coordinate e quindi di una verità certa. Perdiamo la sensazione di confine, contenimento e senso: siamo piccoli, siamo nulla. E dato che ai poli la Terra è più piatta e schiacciata, il punto di curvatura ridotto consente una visione molto più lunga dell’orizzonte, producendo un effetto di infinitezza che davvero richiama la “vaghezza” leopardiana, e il suo “L’Infinito”.

Nella foto Gerry Johansson tra i due galleristi Dan Isaac Wallin e Jesper Witte

La poesia e lo spirito

Polaroid congelate: le foto estreme di Thron Ullberg

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Cosa distingue un artista della fotografia da un semplice fotografo? Nell’epoca della banalizzazione e overdose fotografica dovrebbe essere difficile trovare il confine, eppure non lo è. Perché una foto ha smalto, anima, originalità, ribaltamento, o non ce l’ha; alla faccia di filtri, ritagli e altri contorsionismi post produttivi. E quella dello svedese Thron Ullberg − in questi giorni con una personale dal titolo “Vilsen” (“Perso”) alla Elf Galleri di Göteborg − è quasi più arte che fotografia.

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Saran belli gli occhi neri

Qualche giorno fa vedo un video pubblicato su fb che ritrae una jam session jazz tenuta in una angusta sala prove negli Stati Uniti. Ci sono una serie di musicisti; alcuni suonano, altri aspettano il proprio turno per prendere lo strumento e improvvisare. Uno di loro è evidentemente colpito dalla bravura dell’unica ragazza presente in quel momento, una teen-ager che suona magnificamente il piano, e decide di mandare live la sua improvvisazione. È proprio di fronte a lei, e per riprendere al meglio le sue velocissime dita sulla tastiera, coglie anche il particolare delle sue gambe, che vestono solo un paio di shorts molto corti.
Il video dura solo qualche minuto, ma dà comunque tempo a una marea di persone di scrivere commenti estatici, sorpresi, emozionati, commossi, ma spesso anche tecnici: si capisce che i ragazzi e le ragazze che lasciano una nota sono in grado di valutare il talento poderoso di questa giovanissima pianista.

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La libertà è un’altra cosa

Sono veramente perplessa e dispiaciuta dal tipo di prese di posizione sulla questione “burkini” che ho letto sulle bacheche di Facebook di gloriose femministe, compagne, amiche. Al di là del goffo editto francese (che mi pare più manipolatorio e dettato da un desiderio di ridicola “vendetta”, che non da un progetto politico), è piuttosto inquietante per me sentire impugnato un valore di “libertà” per la questione, come se questa libertà esistesse, ma soprattutto come se l’argomento non facesse parte di diritti costituzionali sui quali non è legittimo a mio avviso accettare alcun compromesso. Il rispetto delle culture non può eliminare quei valori morali, etici e politici che sono il frutto di 200 anni di cammino illuministico e oltre 100 anni di lotte femministe.

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