“La frattura”, l’unico prezioso romanzo di Giovanna De Angelis

“Finalmente” ho pensato quando ho avuto qualche mese fa la bozza del romanzo di Giovanna De Angelis. “Per fortuna”, ho aggiunto.
Ero certa che avendo saputo sempre trovare parole così giuste per gli altri, ne avrebbe avute anche per sé, per (con) quel suo mondo turbolento e appassionato dentro, a volte grumoso, rabbioso, e anche libero, retto, ironico, smascherante. Tutti i re erano sempre nudi per Giovanna, nessun ossequio, solo Veritas; quella che ho trovato qui.

Mi aspettavo un buon romanzo, qualcosa che avrei letto con occhi velati e indulgenza, con una dolcezza che l’avrebbe probabilmente irritata. Questa idea è durata un soffio, neanche un paio di pagine. È finita perché “La frattura” è Letteratura, non altro.
Lo è per lo spazio largo di ogni personaggio, delineato come un piano sequenza filmico, coerente e sfaccettato, debole e forte, umano, reale; per una storia veritiera che rende così vicine le nostre ansie interiori, rivelando quanto ognuno di noi stia dentro se stesso con in mano un termometro della felicità sentimentale così fragile, e che faccia dipendere da quel grado la sua capacità di sopportare o meno il proprio vivere, persino il proprio morire.

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Il nuovo romanzo di Paola Ronco: La luce che illumina il mondo

Oppure, piuttosto, quella che non ci riesce: né il mondo, né i suoi abitanti. Perché il cielo è coperto da nuvole di pioggia instancabile, pioggia che diventa fango e sembra anzi colare già in questa forma vischiosa e inarginabile, maligna, priva di speranze.
Un set abbastanza filmico per questa ucronia di Paola Ronco, alla sua seconda prova su carta dopo il suo romanzo di esordio, “Corpi estranei” uscito con Perdisa, che avevo recensito nel 2009; per "La luce che illumina il mondo" l'editore è Indiana, e troviamo una Ronco più cupa e no-future, con un respiro e uno sguardo ampi su un mondo che conosciamo fin troppo bene. Un’Italia squallida e penosa, di cui non ci vengono risparmiati i particolari, dove ogni parte fa il suo gioco, a tratti disumanizzandosi.

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Sorrentino omaggia Fellini, ma spreca bellezza

Su questo blog non parlo quasi mai di cose che non ho apprezzato. Sono sensitiva e naif, penso sia meglio non immettere negatività nel cosmo, e la critica scatena energie da evitare: per me queste righe sono un piacere gratuito di condivisione con voi, non un mestiere. Ma farò un’eccezione per La grande bellezza di Paolo Sorrentino per due motivi principali: il primo è che alcuni lettori di Tu, quore mi hanno esplicitamente richiesto di scriverla (e alé!); il secondo è perché Sorrentino ha un grandissimo talento, che da solo merita menzione e attenzione. Se fossi la sua zia acida, gli direi di smettere di scrivere i soggetti delle storie che gira, e di cercare piuttosto belle sceneggiature scritte da altri. E l’altra cosa che gli direi, se fossi il suo zio arrogante, sarebbe di cercare di fare meno il fenomeno con la cinepresa, ché ogni inquadratura la gira arzigogolata per far vedere che è bravo e ha le idee, ma così diventa come quei bambini che giocano da soli ma si girano a guardare la mamma per farsi dire che son bravi: se lo spettacolo di marionette è fatto bene, non ti accorgi mai delle mani che muovono i fili. Non sempre la spettacolarità fa cinema, secondo me.

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“Sparire”, di Fabio Viola

viola sparireIl segreto è nel sottile gioco sul filo dell’assurdo: implacabile, scomodo, masochistico. Suspense e mistero – così lontani dal loro impiego furbo e dozzinale – portano a momenti di disagio e desiderio di fuga. Continuiamo tuttavia a leggere, voluttuosamente; costretti e ansiosi di uscire da certe situazioni evocate con tale precisione e tridimensionalità da diventare a tratti insostenibili. Restiamo perché è un mondo che non ci assomiglia e tuttavia riconosciamo, affrontandolo nelle nostre difficoltà oniriche, che qui diventano Letteratura. Dopo “Gli intervistatori”, convince in pieno anche la seconda prova di Fabio Viola, che pure qui riesce a toccare, senza alcun psicologismo, corde profonde dell’inconscio. Va in onda il malessere, l’incapacità di reagire, il senso di impotenza, e simultaneamente il suo opposto: l’iper-reattività senza controllo, l’istinto all’azione immediata che spesso ha più [buon]senso di una diversa strategia.
Maggiormente narrativo rispetto al primo, questo romanzo ci porta all’interno di una storia che inizia alla Brazil, dove il protagonista sembra esserlo suo malgrado: Ennio (un ragazzo italiano benestante e poco facente) parte per il Giappone alla ricerca della sua ex ragazza, Elisa.

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Esercizi sulla Madre, di L. R. Carrino

carrino eserciziEsercizi sulla madre di Luigi Romolo Carrino, Perdisa Pop

Non è un libro semplice, questo, nel bene e nel male. Non è un libro della sera, o del treno: è un libro che va propriamente letto, anzi imparato a leggere, cosa che si fa dalla ventesima pagina fino all’ultima. La parola in alcuni passaggi è davvero preziosa, incidente, perturbante, auto compiuta. A volte troppo: la parola si gonfia e pretende tutto, anche di non essere capita; altezzosa, distante. E a volte ciò che si narra è iperbolico, sovradrammatico, implausibile, mi ha lasciato una sensazione di eccedenza, di volontà di effetto; anche se non penso che l’autore ne avesse il proposito. La sensazione che ho, invece, è che Carrino volesse provare a guardarsi dentro uno specchio mentre vomitava, piangeva, gridava, ma tutto piano, tutto solo mouse e tastiera, con persino qualche sorriso di bravura che ci sta tutto: la sua penna è compiuta e poetica, raffinata.
Ci vuole un anticoagulante, e tempi morbidi, per compiere il viaggio di questa lettura, che non è per tutti, e non è per qualsiasi giorno. “Esercizi sulla madre” è la storia di un bambino di 38 anni che abbandonato dalla madre una notte di 30 anni prima non ha mai smesso di escrescere intorno a quella fuga senza addio, di cui solo nella conclusione ribalta il finale.

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Louis Malle vs Asghar Farhadi: il mondo che cambia

Ci sono questi film la cui mancata visione mi dà quasi un senso di disagio, come stessi seduta al banco di scuola senza aver fatto i compiti. Questi titoli così famosi, le correnti di genere, i registi “importanti”: cose che si devono conoscere, in un contesto di media cultura qual è la mia. Quel minimo che mi consenta di stare su media e non mediocre, ecco, senza pretendere troppo.
Ogni tanto cerco di pitturare qualcuna delle mie macchie di leopardo, e di solito lo faccio con un’attitudine emotiva e sentimentale, pronta all’innamoramento artistico. Così ho iniziato a guardare Les Amants, un film del 1958 di Louis Malle – anni che ce l’avevo lì. Anche perché il suo Au revoir les enfants non solo mi era piaciuto molto, ma mi aveva proprio commossa.

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Quota 3220 metri s.l.m.

Addizionare tutti i mesi che ho passato nel paese di montagna dell’Agordino dove ho casa da quando sono nata, e scoprire che la somma equivale a circa sette anni. Sui miei quarantotto. Sono moltissimi.
Sette anni: un settimo della mia vita. E ogni giorno vissuto lì – se le nuvole me lo hanno permesso – ho chiuso la giornata guardando il tramonto verso il Civetta, o “la” Civetta.
Ho sempre detto “il” Civetta, usando il maschile a sottintendere “monte”, anche se non è quello che ho fatto con altre montagne dal nome femminile: ho sempre detto la Marmolada, le Tofane o l’Auta, ad esempio. Ho capito solo ora che dire il Civetta era un modo per darle del lei.

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Skyfall: Bond sulla linea d’ombra

Il mio secondo pezzo per il blog su l'Unità.

C’era così tanto da scrivere su questo film che l’unico modo che ho avuto per farlo serenamente è stato partire con l’idea che sarebbe stato impossibile dire tutto. E nonostante le mie migliori intenzioni, questo post non è affatto breve, e non è neanche una recensione quanto più una critica, perciò più adatta a chi il film l’ha già visto. Mi appello alla clemenza della corte augurandomi di riuscire a farvi arrivare in fondo a bordo delle mie montagne russe di associazioni di idee, frantumi di suggestioni, lacerti di reminiscenze scolastiche, poesia, e qualche milione di metri di pellicole. E ora partiamo! 🙂
Per quanto non si direbbe, a conoscermi, io sono una fan acritica dei Bond movies: ho visto quasi tutti i film, almeno tre volte, con punte di una dozzina di ripetizioni. Non li distinguo uno dall’altro, volutamente: per me Bond è un archetipo a prescindere dall’attore che lo interpreta, una sorta di noumeno platonico. È un agente segreto che esiste realmente, e che anche in questo istante è in missione da qualche parte; quale sia, lo scoprirò nel prossimo film. La premessa solo per far capire che quanto sto per dichiarare non ha nessun contenuto denigratorio o sminuente, per me. Lo dico: Skyfall è molto più di un Bond movie.

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“La pace con voi” per inaugurare il mio blog su l’Unità

Sono molto felice e lusingata di essere stata invitata dall’Unità a tenere un mio blog d’autore. Ho deciso di chiamarlo “Tu, quore”, con questa motivazione:
Un blog per scrivere di quello che mi tocca nel profondo. Non parlo di passione, una parola con quella doppia sibilante che subito divora e disperde, autocombusta, superficiale e capricciosa. Parlo di tenaci tessuti di miocardio che si muovono e abbracciano il mondo che vedo: si tratti di persone, libri, musica, film, arte, visione delle cose, o riflessioni. Questo leggerete qui, se vorrete. Scrivere è il mio modo di essere mondo.

Come primo pezzo, ho scritto qualcosa di molto quoroso, sulla pace… eccolo:

La pace con voi
C’è stato un momento della mia vita, più di 30 anni fa, in cui il mio mondo veniva giù come bastioni di un castello di sabbia. Mia madre moriva di cancro e la nostra casa andava a pezzi di abbandono, ognuno di noi cucito muto nell’impossibilità di gestire questo dolore e comunicarlo agli altri, condividerlo. Avevo appena ficcato il naso nell’adolescenza, e facevo quasi solo cose sbagliate, mentre cercavo di alzare uno sguardo di sfida ai mostri delle mie paure, intanto che l’angoscia scavava un millimetro di buco allo stomaco al giorno. Avevo bisogno di allontanarmi dal castello sul mare, di non assistere ai crolli.

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“Il Cristo ricaricabile” di Guglielmo Pispisa

Un romanzo magnificamente ambizioso, che gestisce con coraggio materia a dir poco rovente a partire dal suo incipit: un uomo – narratore quasi onnisciente della storia – viene resuscitato da suo nipote, un ragazzetto come tanti, di poco più di vent’anni, surfista e introverso, che si sveglia un giorno con le stimmate, senza avere idea di perché, senza una fede in Dio o un afflato religioso, senza averne il desiderio o il physique du rôle psicologico o mentale. Intorno a loro, narratore e protagonista, una serie di personaggi (molti dei quali membri della stessa famiglia), a rendere questo romanzo più che “corale” quasi “sinfonico”: caratteri diversissimi tra loro esprimono pensieri, stili di vita, emozioni e sentimenti spesso antitetici e in conflitto ma che nell’insieme riescono a dare una spinta verticale alla storia, creando un movimento un po’ vertiginoso, come un Tondo Doni michelangiolesco.

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