“Il Cristo ricaricabile” di Guglielmo Pispisa

Un romanzo magnificamente ambizioso, che gestisce con coraggio materia a dir poco rovente a partire dal suo incipit: un uomo – narratore quasi onnisciente della storia – viene resuscitato da suo nipote, un ragazzetto come tanti, di poco più di vent’anni, surfista e introverso, che si sveglia un giorno con le stimmate, senza avere idea di perché, senza una fede in Dio o un afflato religioso, senza averne il desiderio o il physique du rôle psicologico o mentale. Intorno a loro, narratore e protagonista, una serie di personaggi (molti dei quali membri della stessa famiglia), a rendere questo romanzo più che “corale” quasi “sinfonico”: caratteri diversissimi tra loro esprimono pensieri, stili di vita, emozioni e sentimenti spesso antitetici e in conflitto ma che nell’insieme riescono a dare una spinta verticale alla storia, creando un movimento un po’ vertiginoso, come un Tondo Doni michelangiolesco.

La nuova prova di Pispisa dopo i suoi convincenti esordi con Einaudi e Mondadori (a firma dell’ensemble Kai Zen) mantiene i pregi narrativi che conosciamo nella delineazione perfetta e quasi materiale di ogni singolo personaggio, di cui ci sembra di riconoscere persino la voce, attraverso una trama ricca e spregiudicata che non ha paura di affrontare, con il costante delizioso velo di ironia che troviamo in ogni riga, temi decisamente difficili e complessi: dalla politica alla religione, dalla morte all’omosessualità, dalla guarigione all’eutanasia, il tutto senza che il lettore abbia la sensazione che questo avvenga, senza che nulla venga presentato prendendolo troppo “sul serio”, qualsiasi argomento sia. Resta in verità potente e volutamente ambiguo e non sciolto un certo nodo luciferino, un ghigno da “Il terzo uomo”, bulgakoviano più che faustiano, che sembra lasciato apposta in bilico nel mistero.

Maschile senza essere maschio, intelligente e spiritoso, questo romanzo è soprattutto scritto con l’autorevolezza di uno scrittore maturo e sapiente, certamente più vicino alla letteratura britannica o nordamericana che a quella nostrana, e potrebbe avere molto successo in traduzione.

Sei d’accordo con me che di questo romanzo bisognerebbe fare un film, vero? Scherzi o non scherzi a parte, c’è molto cinema in questa storia. L’hai “vista” prima di scriverla?

Non mi pongo mai il problema a priori, per evitare che privilegiare un criterio espressivo possa nuocere alla spontaneità di quel che scrivo. Poi è inevitabile che chi appartiene alle generazioni cresciute con la preponderanza di immagini televisive e cinematografiche rispetto a ogni altra forma di rappresentazione tenda istintivamente a immaginare in modo più visivo. Detto questo cerco sempre e comunque di riservare un ruolo di primo piano alla lingua; è quello lo strumento dello scrittore, non avrebbe senso gareggiare in potenza visiva con un film, ed è la lingua che va curata in massimo grado. Forse l'unico vero peccato mortale che può compiere uno scrittore è usare una lingua sciatta.

Entri a gamba tesa su una serie di questioni che nella nostra Italia vaticana fanno scalpore, ma poi ne esci in fallo laterale. È il tuo gioco?

Un po' sì un po' no. Mi piace e a volte ritengo necessario trattare temi forti; raccontare la piccola storia, la piccola realtà va anche bene, ma se fai solo quello ti perdi un pezzo importante di vita. Detto questo, nemmeno mi piace accelerare troppo verso soluzioni massimaliste, che poi sono sempre quelle più banali. Le teorie del complotto, dire è tutta colpa del Vaticano, dei servizi segreti deviati, dei poteri forti è un modo per non ammettere che spesso la colpa è nostra. E del Mossad, naturalmente.

Un messinese che ambienta una storia tutta a Roma come fosse casa sua. Come hai fatto, e perché? Qual è la genesi di questo romanzo?

L'ambientazione romana in questo caso era funzionale alla trama e al tema trattato. O lì o a Gerusalemme, direi, ma visto che sono italiano… Sul come ho fatto, non mi è stato difficile. Non vivo a Roma ma la conosco un po', e poi sono uno scrittore, quelli come me dovrebbero essere bravi a guardare e descrivere le cose da prospettive non scontate, no? Il rischio quando si descrive una grande città, un posto che conoscono tutti è di fare la cartolina, adagiarsi sullo stereotipo. Ho cercato di evitarlo. Poi vabbe', i luoghi di cui parliamo sono sempre immaginari, costruiti su quel che abbiamo letto e provato prima ancora che su quello che vediamo: sono luoghi dell'anima e dell'intelletto prima che siti geografici. La genesi e direi soprattutto il progressivo farsi del romanzo sono stati lunghi e non a buon mercato. Lo spunto viene da un sogno buffo, non lo ripeto perché ne ho già parlato più volte. Lo svolgimento di quello spunto è passato attraverso cinque anni di scrittura nei quali l'idea originale si è trasformata, insieme alla mia sensibilità, grazie e a causa di una serie di circostanze personali, belle e brutte (di solito brutte, purtroppo, ma servono anche quelle). Come disse una volta Sciascia circa la scrittura de Il contesto: ho cominciato che mi divertivo molto e ho finito che non mi divertivo più. Per me è stato lo stesso. Spero e credo ne sia valsa la pena.

La poesia e lo spirito, Unonove, Slowcult