“La pace con voi” per inaugurare il mio blog su l’Unità

Sono molto felice e lusingata di essere stata invitata dall’Unità a tenere un mio blog d’autore. Ho deciso di chiamarlo “Tu, quore”, con questa motivazione:
Un blog per scrivere di quello che mi tocca nel profondo. Non parlo di passione, una parola con quella doppia sibilante che subito divora e disperde, autocombusta, superficiale e capricciosa. Parlo di tenaci tessuti di miocardio che si muovono e abbracciano il mondo che vedo: si tratti di persone, libri, musica, film, arte, visione delle cose, o riflessioni. Questo leggerete qui, se vorrete. Scrivere è il mio modo di essere mondo.

Come primo pezzo, ho scritto qualcosa di molto quoroso, sulla pace… eccolo:

La pace con voi
C’è stato un momento della mia vita, più di 30 anni fa, in cui il mio mondo veniva giù come bastioni di un castello di sabbia. Mia madre moriva di cancro e la nostra casa andava a pezzi di abbandono, ognuno di noi cucito muto nell’impossibilità di gestire questo dolore e comunicarlo agli altri, condividerlo. Avevo appena ficcato il naso nell’adolescenza, e facevo quasi solo cose sbagliate, mentre cercavo di alzare uno sguardo di sfida ai mostri delle mie paure, intanto che l’angoscia scavava un millimetro di buco allo stomaco al giorno. Avevo bisogno di allontanarmi dal castello sul mare, di non assistere ai crolli.

Massimo era il nome di un uomo silenzioso e sottilmente ironico e garbato che mi ha presa per mano in quei due anni invivibili; senza darlo a vedere, come sa fare chi ha cuore davvero. Era il padre di una mia amica fondamentale, Francesca; mi ha ospitata generoso nella sua casa come fossi la sua altra figlia per innumerevoli pranzi, cene, pernottamenti. Senza Massimo e Francesca la disperazione avrebbe giocato sulla mia pelle una partita dell’esito incerto.
Il suo funerale, qualche giorno fa, in una parrocchia piccola ma gremita. Ero nei banchi in fondo con due amiche che hanno fatto parte della stessa vita di allora; ero distratta dal timore che i frettolosi uomini delle pompe funebri portassero via la bara prima che facessi in tempo a poggiarci sopra le mani per salutare Massimo, con cui non parlavo da lunghissimi anni di Alzheimer. Il rituale della messa così lontano da me: porto il Grande Spirito dentro senza cercarlo in un luogo di culto, non riconoscendomi più nelle formule ripetitive e asettiche del cattolicesimo; non mi persuado a recitarle neanche più alle esequie.
Anche le mie amiche restano mute, ci alziamo o sediamo solo seguendo gli altri, come pesci in un branco; fino a quando il parroco ci invita a scambiare un segno di pace. Un signore seduto lì accanto si gira e ci stringe la mano, sorridendo; e allora anche noi prendiamo ad abbracciarci sorelle, augurandoci pace, pace, pace, augurandola non solo a noi lì, ma a Massimo, a Francesca, ai convenuti, all’universo; una pace mondiale da chiamare con affetto e sorriso, intensamente, in quell’istante vissuto quasi per caso eppure così forte e voluto tra noi; consolatorio, autentico.
E ho pensato a noi italiani che ci salutiamo dicendoci “ciao”, parola che è esito del veneziano di “schiavo”, a sua volta derivata da “sclavus”, ovvero “slavo”, popolo che per antonomasia è stato sfruttato per secoli come servo dalle genti benestanti che si affacciavano sul mediterraneo. Ci dichiariamo quindi “servi” uno dell’altro, nei nostri saluti (anche se pochi, ovviamente, ne sono consapevoli) e chiamiamo “salamelecchi” ciò che ci appare una troppo affettata forma di roboante cortesia. E anche questo non sappiamo: che “salamelecchi” deriva dall’arabo “Salam aleikum” (grafia e pronuncia variabili) che significa “La pace con te”, e che in ebraico è la stessa espressione: “Shalom aleichem”. Due espressioni quasi identiche, intellegibili. Tra arabo ed ebraico la stessa variazione fonetica che potrebbe esserci tra una frase pronunciata da un ferrarese rispetto a un messinese.
Questo il saluto, tra gli uomini di due delle Religioni del Libro; l’augurio più importante è quindi quello di raggiungere e restare nella pace. Eppure non c’è, questa pace; manca da sempre, agognata. Come se il conflitto esterno tra uomini nascesse da una colata di lava inestinguibile che abbiamo interiormente, risultato della nostra paura. Paura di essere in pericolo che si trascina dalle nostre ferite di infanzia dove eravamo fragili e qualcosa è venuto meno, qualcuno ci ha usato forme di violenza, fosse anche solo quella del non esserci. Non siamo stati amati abbastanza, e abbiamo imparato a difenderci, che spesso implica attaccare. Ma non siamo più bambini, e possiamo lasciare andare la paura e il gancio di conflitto con chi non ci ha amati quanto volevano, la maturità è il cedere di questa aspettativa disattesa. E quello che possiamo fare per la pace è amare i nostri figli il più che possiamo, chiudere il cerchio del dolore, spendere ogni nostra risorsa, accogliere da genitori buoni a prescindere dal sangue, come Massimo ha fatto con me. Sono certa che il segreto della pace sia qui dentro. Salam, Shalom.

La poesia e lo spirito