Una recensione per il quotidiano Off.
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“Un certo senso” di Francesco Fagioli in libreria da oggi, candidato da Marsilio Editore al premio Strega
Il romanzo più innovativo di quest’anno lo trovate da oggi in libreria, e ne sentirete davvero parlare a lungo, forse per sempre: questo libro è davvero quello che in gergo viene definito un long seller, cioè un’opera che resta nei “classici” della letteratura, e si vende all’infinito. Perché? Perché è un romanzo pazzesco, che se non avesse le qualità di scrittura che ha, sarebbe un vero incubo: quasi un centinaio di lettere indirizzate a un amministratore di condominio. Ma sono lettere di delirio trattenuto, di fuoco e follia, che celebrano l’incomunicabilità di una vita – forse di tutte. Il diario involontario, negato, di un artista fallito e borderline, Antonio Senso, prigioniero di un appartamento reso mefitico da una problema di scarico del suo bagno, con il finale che si tinge di giallo. Una prosa talmente sontuosa da aver portato Marsilio Editore a sceglierlo per come loro candidato al Premio Strega 2007.
Questo romanzo parte da un’idea inaudita: da dove ti è venuta l’ispirazione?
Nessuna ispirazione, almeno per come l’intende A. Senso, quella mamma immateriale che non solo ti visita inaspettatamente ma poi pensa a far tutto lei, sicché l’artista non deve muovere un dito. Tutto è nato da un fatto reale. La puzza in casa, l’occlusione della colonna di scarico, la lettera dell’avvocato, dettata al telefono per l’amministratore, con la raccomandazione di rivederla ed eventualmente correggerla prima di spedirla. La prima lettera del romanzo non è mia ma riferisce fedelmente le parole dell’avvocato. È quella che effettivamente spedii e che seccò l’amministratore perché avrebbe preferito che gli parlassi del problema a voce. Ad ogni modo, se ne occupò subito e la puzza svanì nel giro di due giorni, però mi ricordo che prima di spedire la raccomandata mi domandai che sarebbe avvenuto se ci avessi messo le mani per “migliorarla”. Feci in effetti dei tentativi, delle modestissime correzioni, e poi lasciai perdere. In seguito non so bene cosa accadde. Forse Antonio Senso – qualcuno che evidentemente già abitava in qualche parte del mio cervello – si incaponì su quel testo. Volle a tutti i costi renderlo diverso, “degno” del destinatario. E così mi dilagò nella mente, non voglio dire che se impadronì, ma di certo si prese una sorta di diritto incondizionato sulle mie mani, e combinò quello che combinò. Alla fine Senso muore, di morte violenta, e nel romanzo c’è un mistero su chi potrebbe averlo ucciso, ma io ho più che un fondato sospetto che quell’assassino sia io.
C’è un messaggio in questo romanzo? Antonio Senso è un everyman?
Se c’è un messaggio, non so dire. Può darsi, ma non mi è possibile razionalizzarlo. C’è un senso (un Senso!) di maledizione, che potrebbe essere quella della scrittura: una sorta di condanna, un contrappasso atroce poiché non è dato sapere a chi lo subisce, cioè a chi scrive, quale sia la colpa che deve scontare. Ecco perché, forse, non potrebbe dirsi che A. Senso sia un everyman, almeno me lo auguro fortemente, giacché non saprei immaginare pena eterna peggiore di quella che non può essere ricondotta ad una qualunque responsabilità. Certo, Senso è sotto tutti gli aspetti una persona “normale”, come lo sono quelli che lo circondano, i condomini, l’amministratore, l’avvocato, e rientra nella sua normalità un certo numero di colpe, sarebbe meglio dire errori, che, in linea teorica, potrebbero essere suscettibili di una punizione. Ma questo non basta a giustificare il martirio della scrittura, e in specie di una scrittura che fa gabbia a se stessa, che impedisce a chi ne è posseduto di scrivere qualcosa di diverso da una – una sola! – lettera, intorno ad un unico problema, quello della puzza di fogna dentro casa.
La tua prosa è in assoluta controtendenza rispetto al mercato, eppure si impone con grande autorevolezza, sicura di sé. Nasce dal personaggio o dal suo autore?
La questione dello stile è per me fondamentale. Ma non saprei dire da cosa o da chi nasca. Scrivo nel solo modo in cui sono capace; posso stare ore o giorni a risolvere un dubbio circa la punteggiatura o la scelta di un aggettivo. Ma il punto è un altro: quando scrivo (o quando scrive A. Senso) mi impongo una regola assoluta: non seguire mai uno schema, uno sviluppo predeterminato. Bisogna che il pennino intinto nell’inchiostro scorra liberamente, dissennatamente, penetrando in territori sconosciuti, senza alcuna garanzia che vi sia un buon esito, e senza sapere se se ne uscirà vivi. Alla fine rileggo tutto e sono i momenti più spaventosi, quelli in cui viene decretato un giudizio inappellabile: funziona o non funziona. In caso di risposta negativa, non c’è salvezza perché quel che è scritto è scritto. Non mi piacciono i romanzi (la stragrande maggioranza purtroppo) che sanno di “costruito”, che sono a tutti gli effetti costruiti. Non mi piacciono gli scrittori che non rischiano quando si mettono al tavolino, che navigano a bordo di una nave da crociera, e non invece su un vecchio brigantino con le vele strappate, privo di bussola e di astrolabio, che fa rotta verso il mare aperto col solo riferimento dell’orizzonte e del tremolio delle stelle.