Un esordio narrativo molto convincente per un compositore e cantante con alle spalle (e davanti a sé!) una lunghissima carriera nell’area più raffinata della musica cantautoriale indipendente italiana, un romanzo che per certi aspetti sorprende, con una trama avvincente che trascina senza usare meccanismi troppo semplicistici della costruzione della fabula. Anzi, Andrea Chimenti si prende un rischio non piccolo (cosa che del resto fa da sempre anche in campo musicale) scrivendo un romanzo che ben prima del successo della seria televisiva “Trono di spade” lambisce − in una delle due storie che scorrono parallele nel romanzo – elementi ascrivibili al genere fantasy, esponendosi così a un possibile disdegno aprioristico di questo lavoro. Ma, proprio come per la serie, l’utilizzo di personaggi e situazioni di quel mondo è soprattutto funzionale al comunicare alcuni archetipi e contenuti di bene e male, a comporre una complessità psichica di ciascun personaggio.
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L’Italia più meschina, quella “Per il bene di tutti”, nuovo romanzo di Giulia Fazzi
Inorridente tutta questa spietatezza. Eppure – o forse per questo − così familiare, già vista strisciare, vissuta in qualche bar di una qualche provincia del mondo, in qualche Nord da cui provenivano da Sud, estranei e risputati. Isolamento, emarginazione. Quale che sia la causa: depressione, povertà, deformità, difformità – l’emarginazione un noi minuscolo e un Loro maiuscolo; una minoranza e una Maggioranza, un Gruppo, un Clan, una Gens oppure semplicemente, ancestralmente, un Branco.
Giulia Fazzi la violenza sulla donna la sa raccontare come l’avesse vissuta sulla sua pelle. Lo ha già fatto con intensità e forza nel suo primo romanzo, “Ferita di guerra”, passato un po’ inosservato in Italia nonostante abbia meritato la pubblicazione in Francia con il prestigioso editore Gallimard − romanzo che prima o poi qualche grande editore dovrà ripubblicare.
Ma rispetto alla storia individuale di “Ferita di guerra”, questo è un romanzo più corale, con una declinazione di ogni possibilità di femminile, dalla giovane alla vecchia, dalla bella alla orribile. Donne diverse tra loro ma con una bussola comune che non è però quella del femminile, ma quella del disagio, dell’abbandono, del rifiuto.
Tutto si svolge in un piccolo paese dell’Appennino Emiliano, uno di quei luoghi senza personalità che non sia quella dei suoi cittadini: le loro abitudini, i loro tic. Posti che sarebbero sonnacchiosi, fino a quando interviene un elemento anomalo, un’increspatura sulla superficie dell’acqua, seminando il bisogno di guardare, vegliare, piegarsi sugli altri. Il paese ritrova se stesso al cospetto di chi esce dai binari, e ci si accanisce. E da sonnacchioso si fa violento branco, persecuzione. Ma in modo gelatinoso. Mani e sassi raramente si vedono insieme, tutto è Tradimento.
Il romanzo parte lento, quasi immobile, bisogna lasciare che le parole ben scelte e calme di Giulia Fazzi lo cesellino raccapricciate questo piccolo mondo, lo schifino come gatto che scrolli una zampa bagnata; ma lo restituiscono poi fino in fondo, senza paura di niente. E la sensazione di ingiusto orrore resta addosso a lungo. Un romanzo poco italiano; asciutto, cattivo. Coi cattivi ma in special modo con i finti buoni e con gli inerti. C’è tanta brutta Italia in queste pagine, ed è un male se non ce ne accorgiamo, perché vuol dire che ci siamo assuefatti.
Giulia Fazzi, “Per il bene di tutti”, Il Saggiatore, 2014, 150 pp., € 14.00
La migliore Svezia filmica al Nordic Film Festival di Roma 2014
Si è da poco conclusa la nuova edizione del Nordic Film Festival di Roma, manifestazione organizzata dalle cinque nazioni scandinave (Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Islanda) per accorciare le ormai comunque brevi distanze tra Italia e Nord Europa. Una vera manna per cinefili raffinati, che anche per quest’anno hanno affollato la Casa del Cinema di Roma spesso non riuscendo a guadagnare uno dei posti di ingresso, peraltro sempre gratuiti – in questo senso, varrebbe forse la pensa di ripensare alla struttura del festival, cercando di distribuirlo su più sale. Il merito del tutto esaurito è da attribuire a una produzione filmica molto varia, di grandissima qualità, e ben ragionata e articolata dalle rappresentanze delle nazioni ospitanti. Curatissima la selezione: si può andare a una proiezione senza avere neanche idea di quale sia il film in programma.
“La frattura”, l’unico prezioso romanzo di Giovanna De Angelis
“Finalmente” ho pensato quando ho avuto qualche mese fa la bozza del romanzo di Giovanna De Angelis. “Per fortuna”, ho aggiunto.
Ero certa che avendo saputo sempre trovare parole così giuste per gli altri, ne avrebbe avute anche per sé, per (con) quel suo mondo turbolento e appassionato dentro, a volte grumoso, rabbioso, e anche libero, retto, ironico, smascherante. Tutti i re erano sempre nudi per Giovanna, nessun ossequio, solo Veritas; quella che ho trovato qui.
Mi aspettavo un buon romanzo, qualcosa che avrei letto con occhi velati e indulgenza, con una dolcezza che l’avrebbe probabilmente irritata. Questa idea è durata un soffio, neanche un paio di pagine. È finita perché “La frattura” è Letteratura, non altro.
Lo è per lo spazio largo di ogni personaggio, delineato come un piano sequenza filmico, coerente e sfaccettato, debole e forte, umano, reale; per una storia veritiera che rende così vicine le nostre ansie interiori, rivelando quanto ognuno di noi stia dentro se stesso con in mano un termometro della felicità sentimentale così fragile, e che faccia dipendere da quel grado la sua capacità di sopportare o meno il proprio vivere, persino il proprio morire.
Percussioni Ketoniche: intonati come campane
Il doppio concerto “Campane e Sonus” delle Percussioni Ketoniche all’Auditorium di Roma il 22 dicembre scorso (dopo un’ulteriore matinée qualche giorno prima) ha decisamente sciolto con vibrazioni di energia primordiale e liberatoria la cornice elegante dalla Sala Studio, trascinandola in una materia colante e lavica. Il gruppo creato e diretto da Giulio Costanzo (M.° del Conservatorio di Campobasso), e composto da molti suoi ex allievi di ormai acclarato successo ha portato in scena un concerto ottimamente costruito, ricco di variazioni e musicalità, nonostante la melodia fosse affidata esclusivamente alle marimbe, e in modo obliquo alle campane.
Il progetto di Costanzo nasce in effetti molto dall’incontro con Marinelli, attuale erede e titolare dell’omonima antica Fonderia di Agnone, che esporta campane in ogni angolo del pianeta. Marinelli, sul palco a fine spettacolo, spiega che era in cerca del partner giusto per far cantare finalmente –e intonatamente– le sue campane, e che Costanzo ha accettato e superato la sfida, creando melodie e suoni giusti per ottenere armonia dal metallo. Ed è con le campane che comincia il concerto, per poi ingrandirsi a prendere toni sempre più ampi anche grazie all’elettronica gestita da Max Fuschetto, ma il concerto non punta solo al crescendo, come spesso avviene per le performances di percussioni, ma alla variazione di temi, ritmi, strumenti, esecuzione, e ovviamente alla bravura dei musicisti tra cui spiccano soprattutto uno strabiliante Antonio Armanetti, premiato giovanissimo con il Premio delle Arti per le percussioni, Roberto Napoletano, e il batterista Oreste Sbarra, che in modo sanguigno e deliziosamente mediterraneo, ha chiesto a fine concerto, dal palco, la mano della sua fidanzata, trasformando ciò che restava dell’elegante Sala Studio in una festa di paese.
Searching for Jupiter, il nuovo album di Magnus Öström: la bellezza che resta dopo l’Esbjörn Svensson Trio
Inauguro con questo pezzo la mia collaborazione con il magnifico sito Jazzitalia, per il quale mi occuperò prevalentemente della musica che preferisco in assoluto, il modern jazz scandinavo. Non potevo che cominciare con quello che per è uno dei dischi più belli della storia del jazz… godetevelo!
C’era una volta l’Esbjörn Svensson Trio, una band che aveva bruciato tappe e sbriciolato distanza tra jazz e rock/pop, inventando una terza via dove l’eleganza rauca e sporca dell’una si fondeva senza punti di sutura nella potenza ruvida o nella giocosità lieve dell’altra; un luogo musicale nuovo che aveva e ha raccolto come un paziente rastrello fans eterogenei, dai puristi del bop agli amanti del post rock, con le dita dei musicisti del trio, Esbjörn Svensson al piano, Magnus Öström alla batteria e Dan Berglund al contrabbasso, a carezzare qualsiasi suono, dal più melodico al più dissonante, senza cesure tonali o di ispirazione. Una band che come nessuna altra aveva bucato il diaframma del proprio confine europeo per essere acclamata in tutto il mondo come la migliore formazione jazz del momento.
Tonbruket e Ane Brun, energica raffinatezza scandinava all’Auditorium di Roma, 24 novembre 2013
Sold out domenica scorsa all’Auditorium Parco della Musica di Roma l’unica data italiana della norvegese Ane Brun con il quartetto svedese Tonbruket, la ventiduesima di un lungo tour europeo che li ha portati in tutte le città più importanti d’Europa.
Amata da Peter Gabriel, che l’ha voluta al suo fianco sia in studio che live – così come da Ani Di Franco – Ane Brun è una star assoluta in Scandinavia. In dieci anni ha composto e pubblicato ben sei album in studio, realizzato due live, e suonato decine di concerti ovunque. Per il tour del 2013 ha scelto di essere supportata da una delle formazioni jazz più importanti della scena scandinava (e quindi, europea): Tonbruket, un quartetto nato per volontà di Dan Berglund, contrabbassista del trio jazz più premiato degli anni duemila per l’innovazione del jazz contemporaneo, l’Esbjörn Svensson Trio (E.S.T.).
Luca Aquino in concerto alla Casa del Jazz
Luca Aquino in concerto alla Casa del Jazz, Roma, 9 novembre 2013
A volte la cifra del piacere di un concerto è proprio nell’atmosfera morbida, intima e vicina che i musicisti riescono a creare con il pubblico, come fosse la magia di una suonata improvvisata in una baita montana un istante prima che qualcuno dica “buonanotte”, mentre poi invece si resta in piedi a fare musica fino a mattina. E sai che quello che hai vissuto era per pochi, e irripetibile. La performance di Luca Aquino alla Casa del Jazz ha assomigliato a questo: c’era un pubblico ammirato, ma non solo ammirante; c’era un partecipare a qualcosa di personale e gioioso. Il tutto in verità ben lontano da qualsiasi possibile idea di casereccio: la musica è stirata in ogni direzione, come l’album da cui è tratta, aQustico, uscito per la Tùk Music di Paolo Fresu. Da raffinata a animale, da freettosa a standard, da spernacchiata a dolcissima, una galoppata in molti generi dove infatti emerge più la varietà che una stretta originalità compositiva delle melodie, che spesso rispettano criteri di piacevolezza più che di innovazione, facendo brillare maggiormente esecuzione e interpretazione.
Il nuovo romanzo di Paola Ronco: La luce che illumina il mondo
Oppure, piuttosto, quella che non ci riesce: né il mondo, né i suoi abitanti. Perché il cielo è coperto da nuvole di pioggia instancabile, pioggia che diventa fango e sembra anzi colare già in questa forma vischiosa e inarginabile, maligna, priva di speranze.
Un set abbastanza filmico per questa ucronia di Paola Ronco, alla sua seconda prova su carta dopo il suo romanzo di esordio, “Corpi estranei” uscito con Perdisa, che avevo recensito nel 2009; per "La luce che illumina il mondo" l'editore è Indiana, e troviamo una Ronco più cupa e no-future, con un respiro e uno sguardo ampi su un mondo che conosciamo fin troppo bene. Un’Italia squallida e penosa, di cui non ci vengono risparmiati i particolari, dove ogni parte fa il suo gioco, a tratti disumanizzandosi.
Sorrentino omaggia Fellini, ma spreca bellezza
Su questo blog non parlo quasi mai di cose che non ho apprezzato. Sono sensitiva e naif, penso sia meglio non immettere negatività nel cosmo, e la critica scatena energie da evitare: per me queste righe sono un piacere gratuito di condivisione con voi, non un mestiere. Ma farò un’eccezione per La grande bellezza di Paolo Sorrentino per due motivi principali: il primo è che alcuni lettori di Tu, quore mi hanno esplicitamente richiesto di scriverla (e alé!); il secondo è perché Sorrentino ha un grandissimo talento, che da solo merita menzione e attenzione. Se fossi la sua zia acida, gli direi di smettere di scrivere i soggetti delle storie che gira, e di cercare piuttosto belle sceneggiature scritte da altri. E l’altra cosa che gli direi, se fossi il suo zio arrogante, sarebbe di cercare di fare meno il fenomeno con la cinepresa, ché ogni inquadratura la gira arzigogolata per far vedere che è bravo e ha le idee, ma così diventa come quei bambini che giocano da soli ma si girano a guardare la mamma per farsi dire che son bravi: se lo spettacolo di marionette è fatto bene, non ti accorgi mai delle mani che muovono i fili. Non sempre la spettacolarità fa cinema, secondo me.