Festa di compleanno

Questo racconto è uscito su “Rassegna sindacale”, la rivista della CGIL, per venire poi pubblicato da Ediesse nell’antologia “Il lavoro e i giorni“. L’avevo scritto per parlare del tema IVG (interruzione volontaria di gravidanza), che mi sta molto a cuore, ma andava benissimo per il tema. Il racconto è un po’ amaro ma – credo – abbastanza vero.

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FESTA DI COMPLEANNO

Quindi oggi facevo diciassette anni. Tu mi avevi comprato una felpa e quel portachiavi firmato di marca accettata a livello radical-chic, però pensavi che era un peccato che non fossi proprio proprio no global, che non mi facesse schifo anche Lonsdale. Ma ti accontentavi così, per questo figlio cresciuto negli anni ’90. Ti era andata quasi troppo di lusso con me, non mi piaceva neanche il calcio. E ti impensierivi su certi dettagli che lasciava scappare il mio zainetto Eastpak, perché va bene la canna che è di sinistra, però era meglio se era saltuaria, di gruppo, e invece due dico due pacchetti di cartine lunghe, e il set indiano di cartoncini da filtro. Questo significa iniziativa personale, procacciamento diretto e utilizzo quotidiano di stupefacenti. Continua a leggere

Melampo

Questo pezzo mi da una grande emozione e sono stata onoratissima che sia uscito su Carmilla il 24 aprile 2007, corredato dalle foto di Gianni Faluomo. Una delle soddisfazioni più grandi che ho avuto dalla scrittura.

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MELAMPO

Addis Abeba è una città speciale e contagiosa, istilla un ritmo di vita che veloce si inocula e poi ti resta lì, dove non l’hai messo.
Non è una cartolina africana; è un mondo a parte, con cose uniche e splendide che non trovi altrove, e situazioni che danno fastidio. Una città tropicale in quota, dolcezza solare di giorno e freddo di notte, soprattutto se stai sotto una lamiera e poi piove. Qui ci sono i mesi delle piogge. Il clima dopo El Niño ha perso un paio di venerdì e a volte l’acqua travolge tutto. Ora no, è novembre e la pioggia è finita. Ho una settimana da passare qui, per lavoro. Continua a leggere

Lettere all’amministratore di un condomino intimo – Francesco Fagioli

Una recensione per il quotidiano Off.
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“Un certo senso” di Francesco Fagioli in libreria da oggi, candidato da Marsilio Editore al premio Strega

Il romanzo più innovativo di quest’anno lo trovate da oggi in libreria, e ne sentirete davvero parlare a lungo, forse per sempre: questo libro è davvero quello che in gergo viene definito un long seller, cioè un’opera che resta nei “classici” della letteratura, e si vende all’infinito. Perché? Perché è un romanzo pazzesco, che se non avesse le qualità di scrittura che ha, sarebbe un vero incubo: quasi un centinaio di lettere indirizzate a un amministratore di condominio.  Ma sono lettere di delirio trattenuto, di fuoco e follia,  che celebrano l’incomunicabilità di una vita – forse di tutte. Il diario involontario, negato, di un artista fallito e borderline, Antonio Senso, prigioniero di un appartamento reso mefitico da una problema di scarico del suo bagno, con il finale che si tinge di giallo. Una prosa talmente sontuosa da aver portato Marsilio Editore a sceglierlo per come loro candidato al Premio Strega 2007.

Questo romanzo parte da un’idea inaudita: da dove ti è venuta l’ispirazione?
Nessuna ispirazione, almeno per come l’intende A. Senso, quella mamma immateriale che non solo ti visita inaspettatamente ma poi pensa a far tutto lei, sicché l’artista non deve muovere un dito. Tutto è nato da un fatto reale. La puzza in casa, l’occlusione della colonna di scarico, la lettera dell’avvocato, dettata al telefono per l’amministratore, con la raccomandazione di rivederla ed eventualmente correggerla prima di spedirla. La prima lettera del romanzo non è mia ma riferisce fedelmente le parole dell’avvocato. È quella che effettivamente spedii e che seccò l’amministratore perché avrebbe preferito che gli parlassi del problema a voce. Ad ogni modo, se ne occupò subito e la puzza svanì nel giro di due giorni, però mi ricordo che prima di spedire la raccomandata mi domandai che sarebbe avvenuto se ci avessi messo le mani per “migliorarla”. Feci in effetti dei tentativi, delle modestissime correzioni, e poi lasciai perdere. In seguito non so bene cosa accadde. Forse Antonio Senso – qualcuno che evidentemente già abitava in qualche parte del mio cervello – si incaponì su quel testo. Volle a tutti i costi renderlo diverso, “degno” del destinatario. E così mi dilagò nella mente, non voglio dire che se impadronì, ma di certo si prese una sorta di diritto incondizionato sulle mie mani, e combinò quello che combinò. Alla fine Senso muore, di morte violenta, e nel romanzo c’è un mistero su chi potrebbe averlo ucciso, ma io ho più che un fondato sospetto che quell’assassino sia io.

C’è un messaggio in questo romanzo? Antonio Senso è un everyman?
Se c’è un messaggio, non so dire. Può darsi, ma non mi è possibile razionalizzarlo. C’è un senso (un Senso!) di maledizione, che potrebbe essere quella della scrittura: una sorta di condanna, un contrappasso atroce poiché non è dato sapere a chi lo subisce, cioè a chi scrive, quale sia la colpa che deve scontare. Ecco perché, forse, non potrebbe dirsi che A. Senso sia un everyman, almeno me lo auguro fortemente, giacché non saprei immaginare pena eterna peggiore di quella che non può essere ricondotta ad una qualunque responsabilità. Certo, Senso è sotto tutti gli aspetti una persona “normale”, come lo sono quelli che lo circondano, i condomini, l’amministratore, l’avvocato, e rientra nella sua normalità un certo numero di colpe, sarebbe meglio dire errori, che, in linea teorica, potrebbero essere suscettibili di una punizione. Ma questo non basta a giustificare il martirio della scrittura, e in specie di una scrittura che fa gabbia a se stessa, che impedisce a chi ne è posseduto di scrivere qualcosa di diverso da una – una sola! – lettera, intorno ad un unico problema, quello della puzza di fogna dentro casa.

La tua prosa è in assoluta controtendenza rispetto al mercato, eppure si impone con grande autorevolezza, sicura di sé. Nasce dal personaggio o dal suo autore?
La questione dello stile è per me fondamentale. Ma non saprei dire da cosa o da chi nasca. Scrivo nel solo modo in cui sono capace; posso stare ore o giorni a risolvere un dubbio circa la punteggiatura o la scelta di un aggettivo. Ma il punto è un altro: quando scrivo (o quando scrive A. Senso) mi impongo una regola assoluta: non seguire mai uno schema, uno sviluppo predeterminato. Bisogna che il pennino intinto nell’inchiostro scorra liberamente, dissennatamente, penetrando in territori sconosciuti, senza alcuna garanzia che vi sia un buon esito, e senza sapere se se ne uscirà vivi. Alla fine rileggo tutto e sono i momenti più spaventosi, quelli in cui viene decretato un giudizio inappellabile: funziona o non funziona. In caso di risposta negativa, non c’è salvezza perché quel che è scritto è scritto. Non mi piacciono i romanzi (la stragrande maggioranza purtroppo) che sanno di “costruito”, che sono a tutti gli effetti costruiti. Non mi piacciono gli scrittori che non rischiano quando si mettono al tavolino, che navigano a bordo di una nave da crociera, e non invece su un vecchio brigantino con le vele strappate, privo di bussola e di astrolabio, che fa rotta verso il mare aperto col solo riferimento dell’orizzonte e del tremolio delle stelle.

Ferite di guerra che seducono i francesi – Giulia Fazzi

Una recensione per il quotidiano Off.

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L’intensissimo romanzo della Fazzi, passato un po’ inosservato in Italia, pubblicato da Gallimard

A volte anche l’editoria sforna piccoli miracoli, quando ci sono occhi svegli e ricettori intelligenti e spregiudicati. Sono rarissimi ma per fortuna ci sono, a ricordarci che a volte si sopravvive senza santi in paradiso. È il caso di Giulia Fazzi, giovane scrittrice carpigiana “scoperta” dal gruppo de iQuindici (i lettori volontari costola del collettivo Wu Ming), edita in Italia dall’editore romano Gaffi, il cui romanzo “Ferita di Guerra” è stato appena pubblicato dal prestigioso editore francese Gallimard con il titolo “Blessures de guerre”.  Questo è un onore concesso a pochi – a “poche” ancor meno – che dà speranza al magma dei giovani scrittori italiani spesso ingiustamente invisibili.
Ma questo romanzo in effetti meritava davvero una sorte migliore: è la storia molto intensa e attuale di una giovane operaia che continua a fare le sue rivendicazioni senza piegare la testa, indifferente al mobbing e alle mille pressioni che subisce, tanto che alla fine subirà l’estrema ratio della pressione: lo stupro da parte del padrone. Una storia che si regge su un parossismo raro ma non infrequente, che assurge ad atto simbolico di una molestia – quella sessuale – che è invece largamente diffusa nei luoghi di lavoro. Il cammino di recupero dallo shock di questo trauma tesse con grande emotività lo sviluppo della narrazione, con una prosa che resta però sempre precisa ed asciutta.
Pensi che sia questo il motivo per cui è piaciuto così tanto a un colosso editoriale come Gallimard? Quali sono i suoi punti di forza?
Sì, credo che questo aspetto della scrittura sia molto piaciuto. In “Ferita di guerra” non ci sono preziosismi, non c’è una ricerca formale, la lingua e la narrazione seguono il percorso emotivo ed esistenziale della protagonista, le poche luci e le sue tante ombre. A Gallimard credo sia piaciuto anche il fatto che quella che ho scritto non è una storia intimista e ombelicale ma potenzialmente universale, che parla di lavoro, di potere, di conflitti di classe e di genere. E descrive una giovane donna lontana dagli stereotipi. La forza di “Ferita di guerra” è in Lisa, la protagonista, è nella sua voce che emerge con la potenza devastante di un trauma che non può essere taciuto a lungo.

Come è successo che il tuo romanzo sia stato selezionato?
Sono stata contatta da Vincent Raynaud, l’editor di Gallimard per la narrativa italiana, che l’anno scorso ha letto il romanzo del tutto casualmente, scaricandolo dal sito de iQuindici dove è disponibile per il download. “Ferita di guerra”, infatti, è pubblicato con la clausola del copyleft. Vincent lo ha poi proposto al comitato editoriale che ha deciso di pubblicarlo. Senza il copyleft, tutto questo avrebbe avuto tempi molto più lunghi.

“Nemo propheta in patria sua” è uno di quei proverbi che ha retto davvero bene la sfida del tempo. Come mai un romanzo di questo valore può passare inosservato?
È molto difficile riuscire a farsi notare in un mercato così inflazionato. In Italia, come sappiamo, si scrive tanto e si legge poco e i romanzi scadono più in fretta di una bottiglia di latte. I grandi editori monopolizzano la distribuzione e la promozione sulla stampa, per un piccolo editore è difficile trovare uno spazio. Poi, certo, bisogna lavorare bene, avere i contatti giusti, inventarsi strategie. Spero che la Francia sia l’inizio di una seconda vita per “Ferita di guerra”. Chissà, se saranno i francesi a fare di “Ferita di guerra” un successo, può darsi che pubblico e critica italiani gli dedicheranno più attenzione.