Sono molto grata alla rivista svedese bilingue Lyktan che mi ha commissionata un’‘intervista a Roza Ghaleh Dar, consentendomi di capire meglio la situazione dei rifugiati politici iraniani nel mondo, e del ruolo che la letteratura può avere come collante per le persone che vivono nella diaspora.
La relazione con la lingua originaria come lotta collettiva
Nel momento in cui gli iraniani in esilio si impegnano nella lotta femminista in Iran diventa ancora più difficile per loro tornare in patria. Monica Mazzitelli ha incontrato Roza Ghaleh Dar della rete Simorgh, impegnata nella creazione di un contesto culturale per la letteratura persiana in Svezia.
Ci siamo incontrate all’evento Bī-dār, al palazzo espositivo Röda Sten Konsthall di Göteborg, dove tu e altre donne del gruppo Simorgh avete dato vita a una performance di lettura. Puoi spiegarmi meglio di cosa si tratti?
– Siamo stati invitati all’evento dal regista Azad Larki e dalla poetessa Siri Berzelius per esplorare insieme al compositore Arvid Kraft le memorie personali e collettive degli eventi della rivoluzione iraniana del 1979 e della lotta femminista in corso oggi in Iran. Il titolo Bī-dār è una parola persiana con due significati. “بیدار” significa consapevole o illuminato, e “بی دار” significa liberarsi dal cappio che stringe la lotta del popolo per il potere in Iran. La gente scrive questa parola sui muri e sulle facciate degli edifici in Iran per protesta, invitando il popolo a svegliarsi e a unirsi alla lotta per la libertà. La cosa interessante è che bī-dār assomiglia anche alla parola di-var, che in persiano significa muro. Sfidare questo muro, i confini che chi è al potere vuole erigere tra la gente, è una lotta continua ovunque ci troviamo. In Iran, all’interno delle mura domestiche, la società civile conduce un tipo di esistenza molto diverso da quello che il potere vorrebbe imporre, e c’è una forte volontà di svelare o rompere questo muro che impedisce costantemente la vita.
Com’è nato il collettivo Simorgh, come svolgete il vostro lavoro?
– Avevo sempre avuto il desiderio di creare un collettivo insieme ad altre persone che avessero un background iraniano. Dopo aver tenuto un corso di scrittura in persiano alla scuola artistica Nordens Folkhögskola Biskops Arnö, ho chiesto ai partecipanti se volessero esserne parte, e da lì è nato Simorgh. Siamo un gruppo di poeti, sceneggiatori, bibliotecari, ricercatori, programmatori, insegnanti, artisti e traduttori di tutte le età, aperto a pratiche interdisciplinari. Il nostro desiderio è quello di mappare e mettere in evidenza le voci letterarie che hanno difficoltà a essere ascoltate nella scena letteraria svedese. Lo facciamo attraverso letture, spettacoli e pubblicazioni. Molti di noi amano scrivere e quindi leggiamo spesso le nostre reciproche cose, in diverse lingue.
Raccontami un po’ di te!
– Sono nata in Iran, ma ci siamo trasferiti subito in Francia e poi definitivamente in Svezia, quando avevo sei anni. Prima di arrivare in Svezia capivo il persiano, ma non lo parlavo. Ho iniziato quando siamo arrivati qui, dove c’erano amici e parenti. Per me è stato fondamentale che la scuola pubblica svedese offrisse ai migranti come me delle lezioni di lingua madre, dato che per molti anni – in quanto rifugiati politici –non siamo potuti tornare in Iran. La prima volta che sono riuscita a partire avevo vent’anni: da quel momento in poi il mio contatto con l’Iran è diventato molto più diretto. Poi ho scelto di studiare letteratura all’università: ho studiato prima filologia e letteratura a Valencia, in Spagna, e poi sono andata in Francia dove ho conseguito un master in letteratura.
Cosa ti ha portata a iniziare a lavorare con le traduzioni?
– La mia grande fonte di ispirazione è stato il poeta e traduttore Shahrouz Rashid, che conoscevo molto bene. Viveva in esilio a Berlino e non poté mai più tornare in Iran. Era un esperto di letteratura, soprattutto persiana, e scriveva in persiano, nonostante le difficoltà di scrivere in esilio. I suoi testi mi piacevano molto e sentivo il bisogno di tradurli.
In che tipo di contesti traduci, di solito?
– Me ne occupo principalmente per la rivista letteraria Karavan, dove sono anche una membra del comitato editoriale. Karavan è una sorta di portale per la letteratura extraeuropea che non sia ancora stata tradotta in svedese. Si adatta al tipo di autori con cui lavoro, che sono spesso piuttosto invisibili. Per me la traduzione è un progetto personale: ho tradotto soprattutto poeti che conosco personalmente, come Shahrouz Rashid, di cui ho parlato prima, o la poetessa Azita Ghahreman, che fa anche parte del nostro collettivo Simorgh. Per me è molto importante avere un approccio personale a un testo, poter dialogare con l’autore, oppure essere già in relazione con il suo lavoro. Ma ho anche tradotto scrittori che vivono sotto un regime protetto garantito dallo stato svedese per ragioni politiche, oppure le liriche della poetessa afghana Maryam Ahmadi, che scrive poesie in dari – una variante del persiano – sulle gigantesche statue del Buddha che sono state fatte saltare in aria qualche anno fa dal regime afghano. Non conoscevo Maryam, ma quando mi è stato chiesto se volessi occuparmi di tradurre le sue opere ho accettato perché ritenevo che fossero importanti. Ma naturalmente è difficile guadagnarsi da vivere con le traduzioni; quindi non può che essere un’attività secondaria per me.
Perché ritieni che sia così importante occuparsi di letteratura persiana?
– Penso che la conoscenza della letteratura persiana in Svezia sia insufficiente, quindi per me è importante contribuire a colmare queste lacune. Inoltre, il nostro gruppo etnico manca di punti di aggregazione. Questo si spiega col fatto che molte delle persone che vivono nella diaspora si siano espressi pubblicamente su questioni politiche e quindi non possono tornare in Iran per il momento. A maggior ragione ora che il movimento Women Life Freedom ha portato molte persone a prendere più marcatamente posizione, manifestando apertamente e facendosi presenti ovunque con i propri nomi e cognomi. Non poter tornare in Iran rende molto più difficile mantenere un rapporto con la lingua madre. Per questo credo che ci sia bisogno di un gruppo che crei un contesto culturale, e questo passa anche attraverso la traduzione collettiva e la messa in evidenza degli autori più rilevanti. Altrimenti, la nostra unica narrazione popolare condivisa finisce per diventare la vulgata negativa sull’Iran che viene dai media. C’è troppa poca conoscenza della letteratura persiana moderna, i libri pubblicati in Svezia sono pochissimi. È soprattutto la letteratura persiana “classica” a essere messa in risalto, purtroppo anche da parte degli stessi iraniani. Si rimane bloccati nel passato. C’è molto lavoro da fare.
È anche importante sottolineare che quando si parla di “letteratura persiana”, il concetto è più ampio. Esistono testi in svedese o in altre lingue sull’Iran, per non parlare della varietà di lingue parlate nel Paese. Dopo la rivoluzione c’è stata un’emigrazione di massa e quindi va compreso che la letteratura persiana non sia più solo quella scritta in persiano, ma che esista anche in altre lingue. Ho pensato che fosse interessante richiamare l’attenzione su questo aspetto: noi che siamo cresciuti all’estero abbiamo un bilinguismo che possiamo usare sia come lettori che come scrittori.