Nell’appuntamento di oggi per la mia rubrica Narratori del Nuovo Millennio ho intervistato Yari Selvetella, uno dei miei scrittori italiani preferiti di tutti i tempi.
Data la quantità di cose di cui volevo parlare con lui, e consapevole della densità delle sue risposte, ho deciso di condurre un’intervista online, di cui trovate un sunto qui sotto, ma che potete anche ascoltare in formato audio qui:
oppure guardare in video qui:
Grazie mille di essere qui, è un’intervista di cui parliamo da un pezzo! Sei uno dei pochi scrittori che ho conosciuto prima che fosse un autore di romanzi: quando ci siamo conosciuti avevi pubblicato soltanto un libro di poesia, nel ‘97 – cosa che mi era completamente sfuggita – e poi la poesia l’hai ripresa soltanto quasi dieci anni dopo. Come mai?
Ma guarda in realtà io sin da ragazzo faccio sempre le stesse cose.
Ma quindi suoni ancora il sax?
Il sax poco – contro la mia volontà! Lo suonerei anche di più, ma il sassofono è uno strumento in cui si esprimono tante profondità recondite, è difficile suonarlo dopo che l’hai lasciato. Avendolo io mollato per un periodo, quando ci ritroviamo un po’ come ritrovarsi tra ex: senti l’affetto, però è più che altro uno slancio di passione momentanea.
Ho sempre scritto poesie e continuo a scriverle, la cosa che è cambiata nel tempo è che io non mi sono voluto assumere la responsabilità, il “ruolo” di essere un poeta. A volte (con una proiezione un po’ adolescenziale) vagheggio di lasciare delle poesie postume, mi sembra un’idea migliore.
È una forma di imbarazzo nei confronti della forma poesia, una sorta di fatica a esporsi, o invece ti piace la dimensione interiore della poesia?
Ritengo che per essere un vero poeta sia necessario un forte lavoro su sé stessi, sulla propria lingua, sulla propria interiorità, sul proprio stile di vita. La poesia la vedo un po’ come una mission. E io non sento di voler fare quella vita lì perché temo di poter diventare come certi poeti che sono pieni di rancori, pieni di pettegolezzi, pieni di incompiuti interiori… essere un poeta non è una cosa facile. Però intanto tengo accesa questa pratica in una totale libertà, prescindendo dalla pubblicazione, dai riconoscimenti. Ogni tanto sento l’urgenza di pubblicare qualcosa, allora la pubblico. Appartengo sicuramente al mio tempo nel senso che c’è sempre la voglia di fare tante cose, dimostrare e ottenere tanto, ma la poesia cerco di lasciarla fuori da queste logiche.
Sicuramente ho una biografia editoriale molto disorientante: ho fatto veramente un po’ di tutto. E tu sei una delle poche testimoni di questa cosa! Ogni volta è come se si riazzerasse tutto un po’, no? E anche perché un’altra cosa che non mi piace è vivere di rendita su una cosa che hai fatto ed è andata bene. Per esempio, io a metà degli anni 2000 ho avuto un successo editoriale importante insieme a Cristiano Armati: “Roma Criminale”, un libro che ha aperto tutta una serie di suggestioni con una fortuna tale che ancora oggi continuano a esserci pubblicazioni con questo tipo di titolo. Per due o tre anni mi sono dedicato a questa cosa e avrei potuto continuare a farlo all’infinito, diventando un “esperto”. Sono molte le persone che si ricordano di me per questi libri, mentre io vado sempre oltre, sono qualcun altro. Come è possibile unire in una stessa persona uno che ha scritto delle poesie e “Roma l’impero del crimine”? Eppure sono sempre io.
Credo che sia questo il bello, il fatto che tu abbia toccato ogni variazione. Questi sono dei libri praticamente documentaristici, storici dell’attualità, ma poi tu hai scritto anche dei true crime, penso soprattutto al tuo romanzo “Uccidere ancora”, sulla strage del Circeo, che è andato a toccare un fatto di cronaca studiandone senza remore ogni piega interiore. Qualcosa che non tutti si sentono di fare. Tu invece hai uno sguardo così limpido e coraggioso, non ti fa paura niente. Penso anche al tuo romanzo forse più difficile da scrivere, ma per me il più bello di tutti, che è “Le stanze dell’addio”, dove hai certamente narrativizzato un difficilissimo tema personale, ma non ti sei fatto remore a metterlo completamente nudo. Qual è la molla di questo coraggio, cos’è che ti spinge a scavare così? La curiosità o il desiderio di dare tutto fino in fondo?
Io credo molto nella letteratura, nella possibilità che ci dà di indagare su noi stessi, sul mondo cui apparteniamo, di capire meglio la società che ci circonda. E la letteratura ci dà tanti strumenti, alcuni molto affilati, altri più grossolani, che confinano con linguaggi diversi, per esempio con il giornalismo, con la saggistica, con il documento, e a volte i confini tra l’uno e l’altra sono abbastanza sfocati. Però all’epoca, quando scrissi “Uccidere ancora”, pensai che fosse necessario per me scrivere un romanzo perché – dopo essermi occupato due o tre anni di cronaca nera – volevo raccontare qual era stato per me come esperienza il valore, il disvalore umano e professionale di quella esperienza. Per questo, il centro focale di questo romanzo non era più solo il caso di cronaca nera, ma anche la comprensione di come questo caso agisse su chi lo investigava, modificando il suo sguardo. Al tempo però il romanzo è passato completamente inosservato, anzitutto perché all’epoca non c’era la moda di scrivere dei romanzi ispirati a casi di cronaca nera, andando a spaccare il capello in quattro. Con i miei libri dedicati alla criminalità romana, io venivo da un’editoria molto “aggressiva” dal punto di vista del marketing, che mi aveva fatto conoscere bene fino a tutti gli autogrill, ma dentro di me c’era quello che nel 1997 scriveva anche poesie e quindi ne venne fuori un romanzo che dal punto di vista dell’editoria così “frontale” alla ricerca di un certo tipo di lettore, era un po’ atipico, più letterario. In Italia c’è stata una nettissima separazione tra letteratura “alta” e “bassa”, e dove si vedevano pistole, stille di sangue e coltelli, un lettore alla ricerca di qualità letteraria non si dava proprio la pena di leggere. Invece secondo me è molto efficace leggere la società in filigrana attraverso alcuni casi di cronaca “importanti”, anche dal punto di vista del linguaggio. Adesso, qualche anno dopo, questo tipo di letteratura è molto affermato invece, e chi scrive questo genere di narrativa ha più strumenti e credibilità.
Quindi che succede? Che io mi stufo presto, mi innamoro di tutto – come diceva quella canzone di Bubola e De André – e quindi vedo la letteratura anche come una sfida, cioè voglio fare qualcosa di più, di meglio, una ricerca: voglio ottenere di più dalla letteratura. Spesso invece quello che ne viene fuori è un appiattimento. Tu prima hai citato “Le stanze dell’addio” che viene riportato come un caso di autofiction, come si dice oggi. Ma invece non ha per niente il contrassegno di quell’autofiction di cui si parla oggi, se non il fatto di essere ispirato alla mia personale esperienza.
“Le stanze dell’addio” fu pubblicato nel 2018 da Bompiani grazie alla grande sensibilità di Giulia Ichino, editor di Bompiani, e il supporto di Antonio Franchini e Beatrice Masini: la casa editrice era molto convinta della sua pubblicazione anche se era un libro che poneva degli interrogativi rispetto al trattare una materia del genere. Qualche anno dopo vedo che questa materia è praticamente deflagrata in una maniera che mi interroga. Con il tempo mi vengono tanti dubbi su quello che ho fatto, se fosse giusto farlo, se ho fatto bene o male. Mi è successo anche con Roma Criminale, certi aspetti di quella narrazione su Roma non le ho trovate così corrette o giuste. A un certo punto, celebrai questa cosa con un romanzo che era abbastanza ironico, “La banda Tevere”, un tentativo di buttare più in commedia certe tinte un po’ fosche, piovigginose e cupe che raccontavano una Roma che non riconoscevo nel suo carattere.
Quello che io ho cercato di fare negli anni – io sono un giornalista e conduttore televisivo – è di lasciare che i libri che scrivo siano dettati veramente da libertà e urgenza e non dal fatto che debbano portarmi da qualche parte.
Tu hai sempre lavorato, non ti sei mai preso un periodo sabbatico per scrivere un libro ma hai invece trovato ogni volta il tempo per esprimere quello che avevi nel cuore. Mi chiedo se ci sia una ragione economica per questa scelta o se sia voluta, nel senso di non voler essere completamente dipendente dall’idea di “essere uno scrittore”: non lasci il tuo lavoro perché vuoi mantenere una libertà di scelta o, al contrario, aneleresti a una vita solo dedicata alla scrittura?
Questa è una bellissima domanda perché ci ho pensato tante volte negli anni. Credo che tutto nasca da una difficoltà di riconoscersi la consistenza di una prospettiva, di un sogno, di dire “sono uno scrittore”. Io sono uno di quelli che prima di dire sono uno scrittore e ci ha messo diversi libri. Ormai lo posso dire, ma è una cosa che per anni non mi sono concesso, sentendo dentro la morsa del mio Super-Io che mi obbligava a essere anche qualcos’altro. Quando ero già grandicello ho avvicinato degli scrittori dell’epoca, ma non riuscivo neanche a parlarci perché mi sembrava di incontrare dei personaggi sacri. Non mi sarei mai sognato di scrivere una lettera a qualcuno magari allegando un mio racconto. Vivevo un’ambivalenza: da una parte far finta di non voler esistere, dall’altra desiderare invece profondamente di farlo. Per questo all’inizio ho scelto di scrivere piccole biografie musicali, invece che puntare al mio vero bersaglio.
Tu hai scritto dei racconti bellissimi, come mai hai smesso di scrivere racconti brevi?
Io credo molto negli aspetti tecnici della scrittura: per scrivere bene bisogna esercitarsi. Ogni tanto mi capita di scrivere un racconto per qualche rivista, ma se dovessi scrivere un libro di racconti dovrei veramente prendere la cosa sul serio e prepararmi come fosse un incontro di boxe. Negli ultimi anni questa urgenza è stata deviata verso il romanzo anche perché può offrire spazio a più cose insieme, per esempio a una poesia o a un racconto. Come mi pare abbia detto Bolaño, un bel romanzo contiene sempre anche un bel saggio, perché effettivamente il romanzo ti deve anche dire. Mi sembra il genere più duttile e plastico, e quindi mi sono concentrato su questo.
Ma tornando alla tua domanda di prima, c’è stato un momento in cui il giornale per cui lavoravo era fallito e mi ero trovato davanti sei mesi di sussidio, che avevo deciso di investire nella scrittura a tempo pieno. Purtroppo, in quei mesi si ammalò la mia compagna e cominciò tutto un altro scenario. Poi non mi è più capitata una possibilità di questo tipo, però sento di aver maturato una tale confidenza con questa attività che adesso sarei pronto per esercitarla in maniera esclusiva per un determinato periodo. Detto ciò, il mio lavoro mi porta a viaggiare moltissimo ed è una cosa che amo. L’ideale sarebbe avere uno spazio fisso per la scrittura ogni mattina, come lo aveva per esempio Moravia: 3-4 ore a scrivere e poi andare in giro a vedere il mondo. Non sarebbe così terribile.
Infatti un lavoro ti consente anche la libertà di scegliere quello che hai voglia di scrivere senza doverti preoccupare che incontri il favore di un pubblico. E forse è quello che hai fatto perché la tua carriera così poliedrica sembra essere guidata da un istinto di piacere. Per esempio, questo ultimo libro per bambini che hai scritto mi ha spiazzata – ovviamente solo per tre minuti, dato che sei tu – e volevo chiederti di raccontare un po’ meglio questa storia.
Già da tanto tempo io avrei voluto scrivere qualcosa per bambini o per ragazzi, e questo viene da una suggestione letteraria, cioè da un mio amore per uno scrittore francese, Michel Tournier – per me uno dei più grandi scrittori del ‘900 – di cui sono stati pubblicati tanto libri per bambini che per adulti, e anche i suoi taccuini che sono molto interessanti. Tournier ragionava molto sul rapporto che c’è nella costruzione di una trama, dicendo in sostanza che se un libro è un buon libro, può sempre essere raccontato anche a un bambino. L’idea di fare un libro per bambini nasce da un desiderio letterario: spesso succede che quando uno scrittore scrive libri per bambini, tratti i suoi piccoli lettori come fossero dei deficienti. Ho voluto fare questa “incursione” in questo mondo letterario – e non so se ce ne saranno altre – perché mia figlia che aveva otto anni mi ha chiesto di scrivere un libro che potesse leggere lei. Allora ho inventato questa storia basandola su un fatto che ci è accaduto veramente. Poi mi è anche piaciuto collaborare con una disegnatrice molto brava, Ilaria Urbinati. E qui torno a quello che dicevo prima sulla curiosità di fare molte esperienze di vita. Per me vivere è un’esperienza letteraria intensa.
Dopo aver parlato di libri per bambini, vorrei chiudere questa bellissima chiacchierata parlando del tema della tua paternità, dato che tu sei davvero un padre con la P maiuscola, e hai cresciuto figli di più generazioni. Mi chiedo se tu veda una differenza nell’approccio con la lettura tra i tuoi figli più grandi e i tuoi figli più piccoli, cioè se pensi che continui a esserci ancora desiderio di lettura/letteratura in un mondo dove l’80% delle informazioni passano attraverso un video.
Parlare in generale da una prospettiva molto specifica lascia un po’ il tempo che trova ma penso che abbia a che fare con il tema dell’alienazione nella nostra società. La lettura è un tipo di “passatempo” che richiede una concentrazione di alcuni minuti. Bisogna darsi tempo per entrare in un mondo di cui il testo scritto è un tramite, in modo che quel mondo ci catturi al punto da desiderare di tornarci dentro. Si fa grandissima fatica oggi a far partire questo innesco perché il grado di attenzione è notevolmente cambiato negli ultimi anni. Per esempio, questi video di pochissimi secondi che catturano l’attenzione in maniera magnetica non sono paragonabili al tempo necessario per l’innesco con un libro. E questo non vale più solo per i bambini ma per tutte le generazioni, basta guardarsi intorno dentro il vagone di una metropolitana. È rarissimo vedere qualcuno che legga un libro o un giornale. C’è un grande però: io non mai creduto ai catastrofismi sui mondi dell’arte; ci sono cresciuto in mezzo e a dargli credito sarebbero dovuti essere morti sia il cinema che il teatro. Il problema è che quello che rappresentava prima un romanzo o un libro storico o una pièce teatrale diventa sempre più di difficile comprensione in un mondo che tende all’analfabetismo. Questo è il problema, cioè che se tu devi parlare a un numero ampio di persone devi abbassare il livello linguistico. Io che per lavoro faccio la tv devo attenermi a un linguaggio il più semplice possibile. Non si tratta di una questione di “sforzo democratico” ma proprio di sterilizzazione e intorpidimento di quello che può essere un concetto invece complesso. È lì che casca l’asino: che libri dobbiamo fare, che romanzi dobbiamo scrivere, che poesie dobbiamo diffondere? È chiaro che se l’agone è una bacheca di un social tutto cambia.
Sì, era un po’ questa la mia domanda: l’ipersemplificazione semantica porta alla perdita di un certo tipo di letteratura e anche se continua a esserci, il suo pubblico invecchia. In Svezia si fanno investimenti molto consistenti per mantenere i giovani legati al piacere della lettura e in effetti i risultati si vedono, anche se pure qui la lettura è in calo. La mia sensazione è che in Italia le cose vadano un po’ peggio.
In verità un mercato esiste e va anche abbastanza bene. Però se andiamo a vedere le case della gente “normale”, di libri non ne troviamo. Questa non è che sia una grande novità ma neanche un bel progresso. Sicuramente oggi c’è anche un distacco dall’oggetto libro, che solo parzialmente è recuperato da forme di lettura alternative come per esempio il Kindle.
Ti confesso che io leggo solo audio libri, il ché mi consente di leggere anche 120-130 libri all’anno, che non riuscirei mai a leggere in cartaceo. Anche se non è un “oggetto libro” è sempre un “oggetto letteratura”, penso…
Sì infatti, gli esseri umani hanno scritto su molteplici supporti. Tornando al discorso sull’analfabetismo, vale tanto per bambini e ragazzi ma anche per gli adulti: anche i post sui social devono essere necessariamente brevi, ma come è possibile spiegare questioni complesse in 500 battute, in 10 o 20 righe? Penso che il risultato di questo sarà che non potremmo esprimere una complessità perché – e con questo si chiude il cerchio dell’intervista – per esprimere in una o due parole una grande complessità c’è solo la poesia.
E quindi viva la poesia! Chiudo con una domanda obbligata: a cosa stai lavorando oggi?
Sto facendo un bel lavoro sempre con Mondadori, con Marilena Rossi, in uscita per gennaio.
Lo troveremo sicuramente tra i finalisti dello Strega. Grazie Yari!