Nell’appuntamento di oggi con la mia rubrica mensile Narratori del nuovo millennio che tengo su La poesia e lo spirito pubblico con enorme piacere una mia lunghissima intervista a Nicola Lagioia, avvenuta qualche settimana fa a seguito dell’uscita in svedese del suo ultimo romanzo, “La città dei vivi”, uscita per la rivista mensile svedese Parabol.
Abbiamo parlato del romanzo ma soprattutto più in generale di cosa significhi – per Nicola – la scrittura, che funzione ha nel tempo, nella dimensione sociopolitica e culturale di oggi, quali i mezzi, le risorse, le insidie, le possibilità. Sono grata a Nicola per essersi preso tutto il tempo e il respiro necessari a rendere questo dialogo così ricco e fecondo.
“La città dei vivi” è un true crime che racconta la storia di due giovani uomini dalla vita relativamente nella norma, Marco Prato e Manuel Foffo che hanno brutalmente torturato e ucciso un giovane prostituto di 23 anni, Luca Varani, dopo averlo torturato per ore. Hai fatto un’indagine molto approfondita intervistando tutte le persone coinvolte con le quali hai potuto parlare, e ne hai estratto questo monumentale romanzo documentalistico. Perché?
Guarda, ci sono in realtà due risposte a questa domanda. La più superficiale è che dalla prima volta che ho sentito la notizia di questo omicidio al telegiornale, ho pensato che fosse una storia terribile ma al tempo stesso interessante da raccontare. Prima di tutto per la sua violenza, che per una città come Roma è abbastanza rara: è una città turbolenta però statisticamente parlando ha un basso numero di omicidi rispetto all’Europa in generale. In più, si è trattato di un omicidio completamente privo di movente, eseguito da persone che non avevano nessun collegamento con il mondo criminale; un patto di sangue tra due persone con una vita relativamente ordinaria. Marco Prato è figlio della buona borghesia di sinistra, è una persona con un certo tipo di interessi culturali e fa da PR per un locale alla moda, è affermato nella comunità LGBTQ. Manuel invece viene dal Collatino, un quartiere non molto chic, ma la sua famiglia è benestante e finanziariamente solida. Insomma, due persone insospettabili.
E la cosa interessante è che anche loro non si sono capacitati di quello che hanno commesso, tanto che Manuel, reo confesso, interrogato dal pubblico ministero gli dice che sa di essere colpevole ma chiede che qualcuno gli spieghi cosa ha fatto, ché lui stesso non sa spiegarsi come sia successo. Per entrambi è come se l’informazione non diventasse “conoscenza”. Sia Manuel che Marco ragionavano come degli spossessati, come due apprendisti stregoni che avevano messo su un gioco che a un certo punto non hanno più saputo controllare. Volendo allargare il discorso, questo è un tema molto più grande: forse ci troviamo in una fase storica in cui noi homo sapiens abbiamo messo su tutta una serie di “giochi” che non riusciamo più tanto a controllare, psicologicamente e socialmente; ma è un discorso troppo lungo da fare qui. Tornando invece ai tre personaggi principali – i due omicidi e la loro vittima, Luca Varani – è anche interessante notare come ciascuno di loro rappresenti in un certo senso tre aree geografiche e sociali diverse di Roma: Marco l’alta borghesia dei quartieri chic, Manuel la periferia benestante, mentre Luca Varani vive proprio nell’estrema periferia Nord della città ed è figlio di venditori ambulanti di dolciumi, una classe sociale che equivale al proletariato. Queste motivazioni che ti ho appena fornito sono tutte abbastanza comprensibili, quasi ovvie, però, mentre ce n’è un’altra più misteriosa e profonda. La verità è che io ho sentito una prossimità, diciamo così, nei confronti di tutti e tre. Non perché ne condividevo le vite o il temperamento, ma perché mi è scattato un senso di partecipazione alla loro tragedia di vita, all’essersi messi nei guai così giovani, li ho sentiti come tre amici, anche se più piccoli di me… Per una questione anagrafica, io ho sempre scritto libri i cui protagonisti erano miei coetanei o più grandi, questa è la prima volta che scrivo di persone di generazioni successive alla mia. Marco e Manuel sono indubbiamente colpevoli, però questo non toglie che io sia stato umanamente colpito dal loro destino nel momento in cui mi sono reso conto di quanto i fatti siano stati condizionati da un destino tanto casuale quanto fatale: se Marco e Manuel non si fossero conosciuti, nessuno di loro – da solo – avrebbe mai commesso un atto simile. Dico questo senza ovviamente togliere neanche un grammo alla loro colpevolezza.
Nella tua opera c’è anche una grande dichiarazione d’amore per Roma, descritta nella scena di apertura come un luogo assediato dai ratti ma, man mano che la narrazione si dipana, sempre più poeticamente decadente e affascinante.
Sì, assolutamente. Questo caso mi aveva molto colpito e coinvolto emotivamente fin dall’inizio, ma seguirlo fino al punto da estrarne un romanzo è stato anche dettato dal fatto che poco dopo l’omicidio Varani mi sono trasferito a Torino come direttore artistico del Salone del Libro, e seguire il caso è stato il mio modo – o la mia “scusa” – per rimanere su Roma mentre non ci stavo fisicamente, e tornarci di tanto in tanto per fare interviste utili al mio lavoro di ricerca per costruire al meglio la storia, anche se “La città dei vivi” è tutto il contrario di un giallo. Qui si sa tutto dall’inizio: chi è stato ammazzato, chi sono i colpevoli – che sono pure stati arrestati dalla polizia il giorno dopo – e quindi cioè non c’è nulla da scoprire. Il percorso è piuttosto quello del provare a indagare sui perché, carcare di capire.
La cosa più interessante per me è quella che rimane quasi solo un accenno nel romanzo, ovvero quando racconti di quando eri sbarcato a Roma, giovanissimo e povero in canna, e per sopravvivere avevi mosso i primi passi per prostituirti, trovando come potenziali clienti solo anziani omosessuali ripugnanti. In quelle poche righe tocchi il tema delicatissimo del senso di frantumazione che comporta vendere il proprio corpo a scopi sessuali, cosa ben conosciuta e documentata qui in Svezia dove esiste una legge sulla prostituzione che ha fatto scuola. Oltre a questo, racconti anche alcuni episodi della tua vita tardoadolescenziale in cui hai rischiato di causare la morte di qualche innocente.
A parte farci comprendere le motivazioni profonde del tuo coinvolgimento quasi affettivo nei confronti dei protagonisti, quel tuo rispecchiamento mi ha fatto pensare che, laddove nel tuo precedente romanzo “La ferocia” avevi proiettato un po’ te stesso nei fratellastri Michele e Clara, ne “La città dei vivi” tu abbia dato un ulteriore giro di vite alla questione, intessendo aspetti delle tue passate esperienze personali tanto nella vittima Luca quanto negli assassini Marco e Manuel. Ti riconosci in questa ipotesi?
È molto interessante la tua ipotesi per me, per almeno due motivi. Il primo è un discorso un po’ più generale che riguarda la scrittura di un libro: quando scrivi devi cercare di metterti nei panni dei tuoi personaggi principali, persino quando il libro è un true crime e quindi si tratta persone realmente esistite o esistenti. Devi provare a entrare nel loro stato d’animo come fanno gli attori quando devono interpretare ruoli di personaggi storici. Per questo motivo mi sono ovviamente calato nella psiche di Michele e Clara per scrivere “La ferocia”, e lo stesso ho fatto per Marco, Manuel e Luca, anche se in questo caso il lavoro è stato molto più delicato: per scrivere “La città dei vivi” ho cercato infatti di evitare il più possibile l’errore – se così si può definire – di lavorare di immaginazione. Nel senso che quando scrivo “Manuel pensò” non è una mia deduzione, ma qualcosa che Manuel stesso ha affermato. Ho cercato di mettere il meno possibile del mio, anche se sono convinto che sia passato comunque: è qualcosa che vibra fra le righe, che va al di là di quello che viene semplicemente detto; il lettore lo può intuire o percepire, compreso tutto ciò che ho lasciato fuori. Come scrittore devi passare per questo processo di identificazione anche se, in teoria, già possiedi tutti gli elementi possibili immaginabili e stai scrivendo un true crime. Devi comunque provare a identificarti, con tutti i pericoli che questo comporta. In senso più ampio, tutto ciò ha a che fare con il senso della letteratura, secondo me: i personaggi che vivono un forte disagio sono quelli che in qualche modo ti portano più vicino in realtà; devi entrare nella testa di Ofelia, di Amleto, di Raskolnikov, sono loro che ti fanno capire ciò che va individuato. Quindi tanto Michele e Clara quanto Marco, Manuel e Luca hanno queste caratteristiche, sono cioè personaggi che – per quello che fanno o per quello che sentono – si collocano in qualche modo ai margini o agli estremi del discorso, diventando per questo interessanti. Sono disagiati, marginali, sofferenti, al di là che incarnino ruoli di vittime o carnefici, trionfatori o distruttori, e diventano delle cartine di tornasole per provare a leggere la realtà. Sono i personaggi che prediligo: hanno tutti un lato umano, nessuno è un mostro, sono fragili. Orson Wells ne “Il terzo uomo” è un criminale mefistofelico, mentre i miei personaggi sono tanto distruttivi quanto autodistruttivi. Luca Varani invece no, lui è proprio una vittima. Al di là del fatto che vivesse probabilmente una doppia vita, lui è sicuramente il personaggio più candido e ingenuo, alla fine.
Anche secondo me. Mi è piaciuto molto che nella tua esposizione tu abbia sottolineato come l’opinione pubblica avesse dipinto la prostituzione di Luca come qualcosa di spregevole che andava a “sporcare” l’immagine di Luca, piuttosto che capire quanto questo fatto costituisse al contrario un’ennesima prova della sua fragilità. L’ho trovato assolutamente moderno.
Sì, perché la cosa più sbagliata che si può dire in questi casi è “se l’è andata a cercare”. Tanto più che non si trattava di una situazione degradata. Luca ha visto Marco come una persona di classe superiore alla sua, ben inserita socialmente, e non avrebbe mai potuto immaginare un epilogo del genere.
Tornando a parlare della tematica del raccontare storie vere piuttosto che narrazioni di pura finzione, ultimamente ho notato una posizione polarizzata, in Italia. C’è molta autofiction – ricca di tessuto narrativo emozionale – che diventa Letteratura; basti pensare a Maria Grazia Calandrone, Yari Selvetella, Antonella Lattanzi, Tommaso Giartosio e molti altri, fino a arrivare a Ada D’Adamo che l’anno scorso ha vinto il Premio Strega. Non è certo una novità, da Proust in poi, ma è un genere che è cresciuto e vorrei chiederti se secondo te c’è un legame psico-socioculturale tra questa forma letteraria e l’utilizzo massiccio dei social media, che presentano invece delle pseudoverità.
Questo è chiarissimo, anche per me. Credo che il gioco della percezione dei lettori sia un po’ pericoloso. Da una parte siamo circondati da un racconto della verità che sentiamo molto più instabile rispetto al passato: è l’epoca della postverità, delle fake news, abbiamo due guerre ai confini d’Europa delle quali manca una narrazione intellegibile e affidabile. Soprattutto, è molto più difficile che in passato smentire una relazione falsa delle cose, e questo è legato al modo in cui funzionano gli algoritmi, come spiega Shoshana Zuboff ne “Il capitalismo della sorveglianza” [Övervakningskapitalismen], dove una fake news ha molte più possibilità di venire diffusa di una notizia normale nella sua verità. Ciò detto, però, pur avendo io stesso scritto un true crime, trovo che ci sia un pericolo in questo: credo che il compito di “dire la verità” spetti al giornalismo, mentre alla letteratura spetti al massimo dare una delle versioni possibili della verità. Voglio dire che è importante che esista la letteratura di immaginazione, la letteratura di finzione, anche perché molte volte è stata questa che ci ha aiutati a preconizzare il futuro. In questo senso, anche se il mio libro è un’analisi il più possibile profonda del presente, io mi auguro che possa aprire anche degli squarci sul mondo a venire. La finzione svolge un ruolo troppo importante per metterla in secondo piano: gli scrittori dovrebbero essere legittimati a inventare, a mentire. La cosa vera della letteratura è che è una finzione dichiarata, la cosa brutta della politica è che è una menzogna non dichiarata, spacciata per verità. È un’epoca in cui si chiede agli artisti di assumersi grandi responsabilità di ciò che creano mentre al contrario si concede agli statisti una libertà che gli artisti non hanno mai avuto: pensa alle cose che può dire Donald Trump, sarebbe stato inimmaginabile 30 anni fa. Invece se una scrittrice o uno scrittore dicono qualcosa che può suonare scandaloso o fuori posto, vengono massacrati dall’opinione pubblica. Questo è un gioco molto pericoloso perché in realtà gli scrittori, gli artisti, dovrebbero essere quelli che hanno la liceità di spararla grossa, mentre gli statisti no. Questo testimonia come il potere sia molto forte in questo momento, è questo lo trovo pericoloso.
È vero, anche se in questo romanzo – che forse definire “romanzo” è limitante – pur non essendo un’opera di fantasia, tu fai questa operazione di svelamento. Mi vengono in mente soprattutto le parti in cui poni l’accento su come i protagonisti, pur agendo nel male, non riescono più a imputarsi delle colpe; lì ipotizzi anche che si possa trattare di un narcisismo di massa, una mancanza di consapevolezza della realtà. In po’ come se gli studi fondamentali sulla psiche – da Freud in poi – venissero usati per fornire una sorta di scappatoia morale.
Credo che ci sia oggi una grandissima vocazione vittimaria che ci impedisce di assumerci la responsabilità delle nostre azioni e renderci conto di poter essere causa della sofferenza altrui. Addirittura, Marco e Manuel arrivano ad immaginarsi come delle vittime: “siamo assassini, ma siamo anche vittime delle circostanze”, al punto che Marco addirittura si suicida, incapace forse proprio di farsi carico delle sue responsabilità. Questa cosa è pericolosissima perché noi siamo geneticamente e biologicamente delle creature in preda alle emozioni, e anche per questo siamo contraddittori e sempre ambivalenti, siamo al contempo generosi e egoisti, compassionevoli e crudeli, ed è pericoloso pensare di non poter sbagliare o che – se questo succede – non dipenda da noi, non sia colpa nostra. L’assunzione delle responsabilità individuali invece è qualcosa che deve rimanere.
Pensavo a quella frase di Hannah Arendt: “molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai a essere buone o cattive”, ma credo che in questo romanzo si vada oltre. Marco e Manuel non capiscono neanche di stare esercitando il male, fino a quando non l’hanno quasi già finito di compierlo. C’è un preoccupante scollamento della percezione della realtà qui che trovo modernissimo, credo che tu ti sia davvero preso la tua “responsabilità di scrittore” convogliando questo messaggio, pur rimanendo sempre “comprensivo” nei confronti dei tuoi protagonisti.
Sì, anche perché oggi la letteratura – sotto questo punto di vista – è sanamente controtendenza: siamo divorati dall’ansia di giudicare tutto e tutti, e invece per la letteratura comprendere è più importante che giudicare.