Ho divorato questo libro in una mattinata, ve ne leggo l’inizio e ne posto la mia recensione.
Maria Grazia Calandrone “Dove non mi hai portata”, Einaudi 2022
La nostra migliore poetessa torna in libreria con un romanzo appena uscito per Einaudi nel quale racconta la vita di Lucia Galante, sua madre biologica. Una madre così disperata da credere che sua figlia sarebbe stata più protetta e al sicuro se affidata all’amore di persone estranee, che non restando con lei e il suo compagno, il padre biologico di Maria Grazia.
La coppia era in una situazione tragica sia dal punto di vista economico che socio-familiare, senza speranze per il futuro. Motivazioni probabilmente simili a quelle di altre centinaia di persone, per lo più madri, che presero la stessa decisione in quel frangente storico – la metà degli anni ’60 – come testimoniano le cifre degli abbandoni registrati per quell’anno in tutta Italia.Ma i genitori di Maria Grazia non volevano per lei la medesima sorte di una di quelle centinaia di bambine e bambini abbandonati sulle scale di una chiesa: auspicarono che venisse cresciuta in una famiglia laica e comunista, architettando un piano per darle clamore mediatico sulla testata del giornale giusto, “L’Unità” – e il piano riuscì.
Quando Maria Grazia aveva nove mesi, Lucia la consegnò al mondo lasciandola nel parco di Villa Borghese a Roma dopo aver spedito una lettera al quotidiano comunista in modo che la bambina venisse identificata; qualche minuto dopo averla depositata su un prato, lei e il compagno proseguirono fino all’argine del Tevere, nelle cui alle acque si lasciarono affogare.
È quasi paradossale che Lucia avesse questa certezza che Maria Grazia sarebbe stata certamente adottata da persone speciali che non avrebbero potuto provare altro che quello stesso immenso amore materno che sentiva lei per la sua bambina. È così dolorosa e commovente questa fiducia assoluta e al contempo tanto ingenua di Lucia, che abbandona Maria Grazia per metterla in sicurezza. Una contraddizione solo apparente per una donna nata in una campagna misera del Molise dove per anni ha patito fame, mancanza di amore e maltrattamenti fisici e morali che l’hanno portata a perdere il senso del sé; ma non quello della sua unica, meravigliosa creatura, che ha amato al punto da non sentirsene neanche degna.
Un paradosso pieno di verità e di logica che si staglia adamantino nell’iperpoesia della prosa di Maria Grazia Calandrone, il cui flusso potente e armonioso mi ha colpita come un fiotto di latte premuto dalla mammella di una mammifera belante, come calce viva buttata su un una terra morta invano – per incuria familiare, per omertà paesana e vergogna. Lo spreco di un’esistenza soggiogata al patriarcato, alla congiura di maschi stolidi e cocciuti a cui anche alcune complici fredde e inermi danno licenza e sostegno.
Maria Grazia Calandrone riscatta del tutto sua madre giacché la capisce fino in fondo, ne impara a conoscere e condividere ogni trauma e dolore, da figlia si fa madre per contenerla e proteggerla:
“Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e ti guardo, da una vita che forse hai immaginato per me.
Adesso vengo a prenderti e ti porto via.
Lucia, dammi la mano.”
Un romanzo dove il perdono generato dall’amore, a sua volta generato dalla com-passione, è talmente forte da sradicare e poi ricongiungere tutto, attraverso l’anima splendente dell’autrice.