“The tree of life”: la quinta mitologica fatica del divino Terrence Malick, Palma d’Oro a Cannes 2011

Una summa summarum della poetica e della filosofia malickiana questo ultimo struggente lungometraggio The tree of life dove il regista texano – il più schivo della storia del cinema – ha ripreso le storie, i simboli, le situazioni e il credo narrato nei suoi quattro film precedenti per tirarne fuori un densissimo capolavoro di arte cinematografica. Un film che si ricongiunge alla suggestione del suo primo lavoro La rabbia giovane, interpretato da un intenso carnale Martin Sheen con un’eterea quasi-bambina Sissy Spacek, suggestione che forse in questo film si chiarifica fornendo un senso molto più edipico a quella storia girata nel ’73.
Una famiglia middle class pare all’inizio incarnare la più tipica rassicurante immagine pubblicitaria possibile: un padre affettuoso interpretato da un perfetto Brad Pitt in versione kennediana è sposato e ha tre figli con la giovanissima Jessica Chastain, rossa e lentigginosa come Sissy Spacek, madre-fatina, perfetto angelo del focolare. Nelle loro vite assolate irrompe la tragedia della morte del secondogenito, e a partire da lì, a ritroso, scopriamo i retroscena della famiglia, dove la figura del padre si rivela essere quella di un tiranno insicuro che sfida i figli cercando di piegarli all’ubbidienza, sfogando tra le mura domestiche la frustrazione di non essere riuscito a diventare un uomo di successo e potere nel suo lavoro, pur avendo rinunciato per questo a dedicarsi alla sua originaria passione per la musica. I tre figli maschi, splendidamente interpretati da talentuosi ragazzini, devono piegarsi alla violenza mista a momenti di contraddittorio affetto che il padre esprime in contrapposizione alla dolorosa sottomissione della madre che li difende fin dove osa. Sui tre spicca il primogenito, Jack, interpretato come ragazzo da un encomiabile Hunter McCracken e da adulto dal densissimo Sean Penn, capace di mostrare in poche scene tutto il peso dei segni della sua educazione, e del cammino laborioso per rappacificarsi, senza doverla uccidere, con la figura controversa di suo padre. In questo il legame con La rabbia giovane: il ribelle Sheen che uccide il padre della sua giovanissima fidanzatina senza esitazione, in The tree of life è tentato di sopprimere il suo genitore ma riesce alla fine a riconciliarsi con il suo bisogno di riconoscimento e affetto da quella figura, accettandone dolorosamente l’umanità e fragilità.
Ma oltre a questo tema ritroviamo gli stimoli forti degli altri film di Malick: l’insensatezza e la debolezza insita nella violenza de La sottile linea rossa, il senso del paradiso perduto di The new world e la potenza sentimentale de I giorni del cielo (di cui è doveroso di ricordare una delle più belle colonne sonore mai composte da Ennio Morricone). E soprattutto la tecnica strabiliante del regista che per questa pellicola ha composto centinaia di scene ciascuna in modo diverso, usando la macchina da presa con movimenti liquidi, contorti, spregiudicati, dando la sensazione che ogni inquadratura avesse una scelta talmente precisa di obbiettivo, messa a fuoco e luminosità da parere un quadro a sé, semantico, potente. I dettagli scenici prefetti dalla scelta meteorologica per i giorni in cui girare (di preferenza nuvolosi anche se estivi) alle architetture degli interni, i costumi e le musiche – per lunghi tratti una messa da requiem – oltre agli stilemi più classici del regista (le chiome degli alberi, l’erba alta, l’acqua in ogni sua forma). Degno di menzione, e senz’altro di un Oscar, il montaggio del film non solo nella parte video ma anche nell’audio. Anche questa volta Malick ha preferito ritardare l’uscita del film pur di firmare un prodotto perfetto, lavorato nell’editing con ben cinque montatori, che sono stati fondamentali anche nel creare il senso di natura attraverso le inserzioni di immagini di infinitamente grande (scene cosmiche), medio (eruzioni vulcaniche) e infinitamente piccolo (organismi cellulari), che in modo kubrickiano hanno narrato gli albori del mondo nella sua necessaria violenza che però è anche spinta generatrice. In questo modo Malick ha portato al centro del suo metadiscorso i concetti di Grazia Divina e Natura, in parte visti come opponenti e in parte come espressione dello stesso flusso, concludendo che la forza di superamento di questa dicotomia risiede nella capacità di perdono e di amore.

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