Il mio secondo pezzo per il blog su l'Unità.
C’era così tanto da scrivere su questo film che l’unico modo che ho avuto per farlo serenamente è stato partire con l’idea che sarebbe stato impossibile dire tutto. E nonostante le mie migliori intenzioni, questo post non è affatto breve, e non è neanche una recensione quanto più una critica, perciò più adatta a chi il film l’ha già visto. Mi appello alla clemenza della corte augurandomi di riuscire a farvi arrivare in fondo a bordo delle mie montagne russe di associazioni di idee, frantumi di suggestioni, lacerti di reminiscenze scolastiche, poesia, e qualche milione di metri di pellicole. E ora partiamo! 🙂
Per quanto non si direbbe, a conoscermi, io sono una fan acritica dei Bond movies: ho visto quasi tutti i film, almeno tre volte, con punte di una dozzina di ripetizioni. Non li distinguo uno dall’altro, volutamente: per me Bond è un archetipo a prescindere dall’attore che lo interpreta, una sorta di noumeno platonico. È un agente segreto che esiste realmente, e che anche in questo istante è in missione da qualche parte; quale sia, lo scoprirò nel prossimo film. La premessa solo per far capire che quanto sto per dichiarare non ha nessun contenuto denigratorio o sminuente, per me. Lo dico: Skyfall è molto più di un Bond movie.
Credo che dipenda in buona parte dal peso del director, Sam Mendes. A prescindere dalla sceneggiatura, i suoi interventi registici da un punto di vista compositivo, pittorico e scenografico sono talmente forti e potenti che in questo caso non basta parlare di “dove si mette la macchina da presa” per dirla alla Kieslowski, ma proprio dei contenuti di ciò che si inquadra. Mendes ha riempito questa pellicola di riferimenti culturali, religiosi e psicologici riconoscibili ma sottili – senza mai tradire lo spirito 007 però – per non parlare delle continue citazioni di film, bondiani o meno. Perché Mendes comunque, oltre a essere un regista cinematografico di peso (American Beauty, Revolutionary Road) è un registra teatrale con alle spalle molte pièce shakespeariane, talmente tante che il Bardo resta nella tessitura di quasi tutti i personaggi di Skyfall, a prescindere da una loro possibile identificazione diretta.
Ma andiamo con ordine: il primo piano-sequenza ci anticipa tutto il film: James Bond è in fondo a un corridoio, la sua figura totalmente fuori fuoco tra luci uterine. Cammina verso la macchina da presa, lento e guardingo, indistinguibile, fino all’istante in cui il suo viso raggiunge un punto di luce intensa e l’immagine va finalmente a fuoco: i suoi occhi azzurri comunicano algida chiarezza e determinazione: è uscito dal limbo. Eccolo quindi operativo, pronto per la prima scena del film, quella che precede i titoli, l’obbligatorio playstation tribute: un inseguimento nel Gran Bazar di Istanbul che prosegue a bordo di moto enduro per i suoi tetti, per terminare sopra un treno in corsa, inverosimilmente – bondianamente.
Ma è subito qui che c’è la prima frattura: nel tentativo di uccidere il killer che si è impossessato dell’hard disk che contiene la lista degli infiltrati NATO nei gruppi terroristici di tutto il mondo, l’agente in appoggio a 007, una ragazza di colore di nome Eve (Naomie Harris), finisce per sparare a Bond invece che al killer. Ferito sotto la spalla, vola giù da un ponte ferroviario sprofondando nel fiume sottostante che di lì a poco sfocia in una cascata. Precipita dunque (falls from the sky = skyfalls, questo pensiamo sia il riferimento del titolo, a questo punto), svenuto e senza controllo, risucchiato verso un abisso. Da qui, i titoli di testa, tradizionalmente un film within the film per la loro ampiezza e cura, con una theme song che troppo spesso è stata debordante e un po’ cafona, al contrario dell’elegante pezzo di Adele composto per questa pellicola.
Mendes è riuscito ad andare oltre anche per i titoli, portando il significato delle immagini a un livello sottile: 007 viene risucchiato dall’abisso, ma in questo abisso che si spalanca come una voragine dal fondo del limo ce lo trascina una mano femminile talmente più grande di lui da dimensionarlo a uno stato minuscolo, fetale, introiettato; e infatti durante i titoli Bond non spara a dei nemici, ma alla propria immagine, sia allo specchio che alle sue ombre proiettate sul pavimento. Nella discesa agli inferi l’eroe colpito, ferito (nelle immagini della sua ombra il buco della pallottola è sempre visibile come una stimmata non richiusa), lotta con se stesso, contemplando la propria distruzione. Ed è lì che lo troviamo, dopo: Ulisse in un bungalow su un’isola tropicale, con accanto una fiacca Calipso, suonato da alcol e farmaci, a intrattenere gli avventori di un bar di spiaggia che scommettono sulla sua vita o morte in una sfida con uno scorpione, ricordando Christopher Walken ne Il cacciatore. Ma l’odisseo messaggero degli dèi, rappresentato in questo frangente dalle news della CNN, lo richiama al suo dovere presentando un servizio da Londra: il quartier generale del MI6 (questo il nome bondiano dei servizi segreti britannici) ha subito un attacco terroristico: è tempo che Ulisse riprenda la strada per Itaca, rinunciando a pulsioni anche auto-distruttive, esattamente come Amleto.
E qui occorre tornare un istante alla scena del treno: Eve in collegamento radio aveva segnalato a M (la perfetta Judi Dench) che non era in condizioni di sparare in modo sicuro, e che la possibilità di colpire Bond era molto alta. Ciò nonostante, M le aveva detto di procedere e correre il rischio: Abramo su Isacco, quindi, senza che arrivasse un angelo a fermarne la mano. Poco importa che non fosse stata M a premere il grilletto, e che lui non fosse poi rimasto ucciso; quel che conta è che lei ne aveva accettato il sacrificio senza esitazione pur di portare a compimento la missione. In questa consapevolezza la scelta di Bond di fingersi deceduto, e il suo abbrutimento: è stato tradito da questa madre-matrigna, abbandonato alla morte; la delusione lo ha reso quasi nichilista, fino a che il senso di appartenenza al suo lavoro-famiglia, mascherato da senso del dovere, lo riporta in Inghilterra.
Ma il suo tempo di distacco non è stato inutile, anzi: sprofondare nell’abisso dell’acqua, lambire la morte, risalire all’utero, e poi essere in grado di riemergere simbolicamente come da un battesimo gli ha reso possibile un distacco da un’illusione maternale della vita. Torna da M, sì, per darle la sua disponibilità professionale, ma senza vestire i panni del figlio. Del resto lei lo tratta con freddezza quando lui si fa trovare a casa sua manifestandole che non è morto: più sorpresa che emozionata, più accusatrice che contenta. M gli ribadisce di avere agito secondo le procedure, come lui dovrebbe sapere perfettamente, e che non gli deve altre spiegazioni. Nessun vitello grasso viene macellato per il suo ritorno a casa, e il figliol prodigo ne assaggia l’assenza.
Il viso di Craig infatti è invecchiato e trasandato, la barba un po’ lunga, gli occhi cerchiati, e ai test fisici e psicologici per la riammissione al servizio è in grande affanno. Ha toccato la sua fragilità, la sua finitezza, il senso di impotenza e la marginalità del suo posto professionale: l’MI6 è andato avanti senza di lui, e persino i suoi beni personali sono stati venduti all’asta. Ma nonostante questo sembra più disteso, rilassato, come se dal tuffo purificatore e resurrezionale ne fosse uscito con meno ansia di prestazione, maturo, cresciuto. La perdita di un po’ di rigidità di ruolo a favore di un recupero di simpatia e ironia: Bond sorride più spesso del solito, è più spiritoso, perde ogni tanto l’algido look da spia sovietica kattivona, e si concede di affrontare a viso aperto il discorso spinoso sul confronto giovane/vecchio. Il suo personaggio si trova in questo senso a un punto di transizione, all’attraversamento della linea d’ombra tra giovinezza e vecchiaia, in bilico tra le due prospettive di vita. Da un lato reagisce a Mallory, Chairman del MI6 (un raffinato Ralph Fiennes), quando questo gli dice che il mestiere sul campo è «un gioco da giovani» buttandosi subito a cercare il killer; dall’altro nel primo incontro con Q (il convincente Ben Whishaw) assistiamo a una difesa del valore “maturità” rispetto “modernità” con un vivace scambio di battute in cui Q provoca Bond dicendogli che «L’età non è una garanzia di efficienza» con Bond replica «La giovinezza non è garanzia di innovazione». È interessante come questa scena del loro incontro alla National Gallery di Londra sia una delle più interessanti del film, per quanto la meno bondiana di tutte: 007 è seduto in annoiata contemplazione di un quadro di Turner il cui titolo completo è The Fighting Téméraire Tugged To Her Last Berth To Be Broken Up, (La valorosa Temeraria trainata al suo ultimo ormeggio per essere smantellata) quando Q lo raggiunge. È potente l’immagine della nave da rottamare, nel contesto in cui Mallory ha chiesto a M il suo prepensionamento a causa del fallimento del recupero dell’hard disk rubato. Vediamo subito che il senso, la direzione del film sono già sapientemente svelati da Mendes su un piano iconografico quasi inconscio.
È tempo che Bond torni al suo lavoro: trovare il killer, ma soprattutto il suo mandante, colui che ha fatto capire che l’attacco alla sede del MI6 è indirizzato soprattutto a M personalmente, chiudendo la rivendicazione dell’attentato con la scritta “Pensa ai tuoi peccati”. E la caccia comincia da Shanghai, dove si trova il killer, Patrice. Ha inizio qui la parte cinematograficamente più entusiasmante del film, dove Mendes – insieme al direttore della fotografia Roger Deakins – riesce a giocare con le immagini, i movimenti di macchina ma soprattutto i cromatismi a livelli pari a quelli del Michael Mann di Collateral o Miami Vice. A partire dalla scena in cui seguiamo Craig nuotare in una vasca di profondo blu, al buio, per il suo secondo lavacro rituale/resurrezionale, e fino alla fine della sequenza con il killer, siamo immersi in un mondo fantasmagorico di pure luci, in cui ogni atto, ogni pensiero si esprime cromaticamente, iconograficamente, rinunciando alla parola.
E in questa sequenza di luci al neon con ogni sfumatura dell’azzurro e del blu, il bianco, i riflessi sul vetro e le ombre, al millesimo piano di un grattacielo di Shanghai dove Bond prende la sua rivincita su Patrice, troviamo la seconda opera pittorica importante del film: la Donna con ventaglio di Modigliani. Comprendiamo che il killer è stato ingaggiato per uccidere un uomo, adescato lì con il pretesto dell’acquisto di questo quadro, che è infatti stato realmente rubato a Parigi nel 2010. La scena che Patrice e Bond vedono, dal palazzo di fronte, è quella di alcune persone che si muovono all’interno di un appartamento dove predominano luci di tonalità opposta alla loro, con colori di ocra caldo e morbido, femminile. E notiamo infatti una donna bellissima – Sévérine – che intravede Bond e lo riconosce quando il giorno dopo lui va nel casinò di Macao che lei gestisce per conto di un misterioso “padrone”, che Bond comprendere essere il mandante di Patrice ovvero colui che ha organizzato l’attentato al MI6. L’incontro con Sévérine è improntato a una grande fragilità: questa donna bellissima ha qualcosa di affine al Modigliani rubato, gli assomiglia fisicamente nell’eleganza del suo corpo slanciato, il cui collo è sapientemente allungato dalla forma della scollatura del vestito che indossa. È una donna impaurita, a cui tremano le mani, e Bond le rivela di aver capito la sua storia: sul polso ha il tatuaggio che viene fatto alle bambine costrette a prostituirsi con clienti facoltosi e lui ne deduce che l’uomo che la “protegge” ora sia qualcuno che la tiene in scacco, uno che l’ha comprata dopo che qualcun altro, da bambina, l’ha rubata: come il Modigliani. E l’inevitabile rapporto sessuale tra loro è improntato a una dolcezza inconsueta, senza la sbrigatività tipica di una conquista bondiana.
Sévérine porta Bond finalmente nella tana del lupo, Raoul Silva (l’ottimo Javier Bardem), che si rivela essere un ex agente del MI6 tradito e abbandonato da M: è di lei che si sta vendicando. Vive in un’isola abbandonata e decadente, piena di palazzi disabitati e fatiscenti, con pochi fedelissimi, e da lì gestisce una rete criminale. La sua entrata assomiglia a quella di Craig nella prima scena: un incedere lento dal fondo verso il centro dell’inquadratura, fuori fuoco (come fosse il suo punto di vista ottico di Bond) finché non gli arriva vicino e vediamo finalmente il suo volto. Esterna comportamenti gay, e provoca Bond cercando di spaventarlo con un’allusione sessuale, dicendogli che c’è sempre una prima volta, ma 007 lo spiazza chiedendogli chi gli dà la sicurezza che sarebbe la prima. Il dialogo tra loro è all’impronta del fastidio, con Bond per nulla impaurito o impressionato da questo uomo a cui manca un tratto delirante o particolarmente inquietante, ma è piuttosto un infantile, un uomo preda al livore e al rancore, che uccide Sévérine senza esitazione ma quasi per gioco, in un contesto dal forte valore simbolico: l’esecuzione avviene infatti in uno spiazzo della città abbandonata, ai piedi di una gigantesca statua semi-crollata di un dittatore, molto somigliante a una tipica statua di Lenin dell’ex Unione Sovietica. Questa immagine potrebbe far pensare sia a un simbolo della caduta delle ideologie, sia a una metafora sul rafforzarsi della mafia russa in seguito alla caduta del regime comunista.
Catturato Silva, assistiamo al suo incontro con M dove lui da un lato la accusa di averlo tradito, dall’altro le si inginocchia davanti chiamandola “madre”, mentre lei rimane fredda e impassibile, anzi: britannicamente seccata dalla sua incontinente manifestazione di sentimenti. Si inizia a chiarire il senso di questa vicenda che appare sempre più sentimentale e psicanalitica piuttosto che una banale storia di loschi affari e miliardi: Silva ha architettato tutto questo piano per rivederla, per cercare di trovare una sorta di risarcimento e consolazione al suo senso di tradimento e abbandono, per venire smentito sul fatto che lei sia stata così poco amorevole con lui, nonostante lo stimasse come agente, da venderlo ai servizi segreti cinesi. Silva è alla ricerca di una madre edipica, che lo accolga e lo ami, ma deve confrontarsi con una madre anaffettiva, una strega cattiva col cuore di ferro che non pare essere in grado di amare né lui (Caino) né Bond (Abele), ma solo usarli per il Bene della Patria. M non smentisce accuse ma rivendica la giustezza dei suoi atti, senza mostrare pentimento. Tuttavia, in molti dei suoi discorsi prima di scoprire che l’attentatore è Silva, fa riferimento alle ombre come ai nemici (un tema che torna per tutto il film), indicandoli però come persone che «ci conoscono», dice a Mallory, come “familiari” nell’accezione freudiana dell’heimlich come perturbante in quanto familiare/interno. Quel “Pensa ai tuoi peccati” evidentemente ha un peso nella sua coscienza, anche se cerca di rifugiarsi nella ragion di stato. E pure nel discorso che M tiene davanti alla commissione ministeriale che la accusa di gravi manchevolezze per come ha gestito i problemi del MI6 torna il riferimento alle ombre, all’indefinito, che si ricollega certo alla caduta della visione del mondo in bianco e nero dei tempi della guerra fredda e delle ideologie, come suggeriva anche la statua frantumata, ma pure a questo senso vago di pericolo e disagio interiore. La linea d’ombra, che Bond cerca di travalicare.
Per questo dopo aver salvato M da un ulteriore tentativo di omicidio da parte di Silva (una parte un po’ iperbolica e con qualche forzatura su trama e verosimiglianza) Bond decide di “rapirla” e portarla a Skyfall, che scopriamo essere il nome della sua magione di famiglia, in Scozia, dove sceglie di avere lo showdown con Silva. E qui c’è uno dei momenti più esaltanti del film per i bondiani doc: 007 tira fuori dal garage la sua vecchia Aston Martin! In effetti questa pellicola ha un modo sottile e sapiente di celebrare i 50 anni della produzione Broccoli, un modo quasi affettuoso nei confronti del pubblico più fedele e attaccato alla serie: troviamo una direzione circolare del tempo nel fatto che per certi aspetti Skyfall è tanto un prequel quanto un sequel delle Bond stories, nel senso che vengono introdotti una serie di riferimenti/elementi che fanno pensare di essere “storicamente” al 23° film della serie (come ad esempio la sua vecchia Aston Martin con ancora i congegni di sicurezza che noi ben ricordiamo), ma è anche un prequel nel senso che alla fine del film vediamo la “nascita” di Miss Moneypenny, personaggio che esiste da decenni e che per molti film è stato interpretato sempre dalla stessa attrice.
E a questo proposito è forse interessante sottolineare quanto questo film sia davvero improntato a una political correctness come mai prima, declinata in tre aspetti sociali principali. Per cominciare questo: Moneypenny è diventata da questo film una donna di colore, e l’importanza della scelta è rimarcata in modo sottile dal suo nome: Eve, la prima donna e madre dell’umanità della Genesi, nata dalla costola di Adamo (volendo), ma soprattutto geneticamente un ominide sceso da un albero dell’altopiano etiopico e diventato per lenta selezione homo sapiens: siamo tutti africani, è da lì che veniamo. Il suo essere simbolicamente madre del genere umano è rappresentato anche dal rapporto che ha con Bond, il suo prendersi affettuosa cura di lui, ad esempio facendogli la barba, e nel trasformarsi poi nel surrogato di moglie/madre per eccellenza: la segretaria di M.
Un secondo aspetto di correctness è legato a quanto scrivevo prima sull’omosessualità nell’incontro tra Bond e Silva. Oltre a non esserci nessun fastidio sessuale rispetto a questa scelta, e nessuna necessità di ribadire in opposizione un’eterosessualità basata su un’infantile rivendicazione di virilità, il personaggio di Silva non è presentato con aspetti di “debolezza” di genere, ma solo come un uomo feroce perché ferito: cattivo, sì, ma con le sue ragioni. Vogliamo che muoia, certo, ma ci fa anche un po’ pena, e lo perdoniamo, nel finale.
In ultimo, è evidente quanto in questa sceneggiatura venga superato molto anche un certo tradizionale sessismo nei confronti del femminile. L’unica vera Bond Girl è Sévérine, una donna a cui viene dato un rilievo umano denso, in poche inquadrature, con un passato penoso che Bond accoglie con umanità, dimostrando nel suo atteggiamento non solo comprensione per lei ma anche disprezzo nei confronti di chi ha violato la sua vita costringendola alla prostituzione da bambina. Sono temi davvero appena sfiorati, allusi, e tuttavia presenti e riconoscibili nella trama. E rafforzano grandemente il personaggio di 007: Bond è un uomo per davvero, consapevole della sua posizione nel mondo e nella società, senza nessuna virilità da dimostrare con triviale machismo, ma al contrario assertivo e centrato in sé.
Ma torniamo al finale del film, lo showdown in Scozia. Skyfall è la dimora della sua famiglia, di cui lui resta l’ultimo discendente in quanto figlio unico di genitori deceduti entrambi quando aveva quattro anni – e non è forse una coincidenza il fatto che conosciamo come evento traumatico della vita dell’attore Daniel Craig la separazione dei suoi genitori quando aveva esattamente quella età. La casa ha un aspetto lugubre e giace adagiata in una vallata brulla e tardo autunnale. Sulla colonna di ingresso campeggia la statua di un cervo, tradizionale emblema non solo di Cristo vittorioso sul Demonio, ma soprattutto simbolo in molte culture del rinnovamento e della rinascita, a causa del fatto che il cervo maschio da giovane perde a ogni primavera il suo palco, che gli ricresce però ancora più vigoroso l’anno successivo.
La tenuta è in disarmo, i mobili coperti da teli, poche suppellettili; sembra disabitata finché non si palesa l’unica persona che ne è rimasta in qualche misura a custodia, come il pastore Eumeo per Ulisse: il guardiacaccia Kincade, interpretato da un Albert Finney totalmente in parte, shakespeariano nel midollo. Come per quasi tutti i dettagli del film, il suo nome non pare scelto a caso: al clan dei Kincade appartiene colui che espugnò agli inglesi il castello di Edinburgo, nel ‘600, e uno dei significati del nome in gaelico è “colui che conduce la battaglia”. Ma la funzione di Kincade, che nella tassonomia popperiana sarebbe l’aiutante, ha qualcosa di più sottile ancora: la sua funzione di “guardicaccia” suggerisce un’analogia con la favola di Biancaneve, e infatti il rapporto che istaura con M anche se, da un lato, è quello di un devoto e deferente servitore, dall’altro è quello di qualcuno che si permette con lei una confidenza che nessun altro le rivolge nel film. Non è in soggezione come non lo sarebbe chi, pur conscio del grado di una persona, ne conosce anche la fragilità: come il guardiacaccia della strega di Biancaneve conosceva la sua debolezza di temere di non essere la più bella del suo reame. Non a caso Kincade è l’unico personaggio della storia che le dà un appellativo al posto dell’iniziale: la chiama Emma, come avesse travisato il suo nick, e così la umanizza, togliendole un’aura da Regina Vittoria, o Lady di Ferro.
Ma come il guardiacaccia di Biancaneve, pure Kincade finirà per tradirla, anche se involontariamente: usando una torcia per illuminarle la strada fino alla cappella di famiglia rivela a Silva dove si trovano. E lui dopo averli raggiunti prende M tra le braccia, punta una pistola alla sua tempia accostando la testa alla sua, e le chiede di premere lei il grilletto dicendole «Liberaci entrambi con la stessa pallottola», alla ricerca di un’ultima disperata possibilità di ricongiungimento. Ma Bond è appena emerso dalla sua terza e ultima resurrezione dall’acqua, e lo trafigge con l’unica arma rimastagli: un pugnale che l’aiutante gli aveva dato qualche ora prima (anche sul valore simbolico e allusivo del pugnale si potrebbe parlare per ore…). Silva crolla a terra, mentre 007 corre ad assistere M che, ferita, gli muore in grembo. L’inquadratura di questa scena, con M tra le braccia di Bond, i quattro attori sfalsati tra loro, e le luci gialle della cappella, è una delle più belle del film, un misto tra una deposizione caravaggesca e il palco di un teatro. Ma nonostante le lacrime di Bond, e la nostra predisposizione a fare il tifo per lei, non c’è grande pena per la morte di M ma un sentimento ambiguo che investe anche la patetica figura di Silva. Sono entrambi perdenti, entrambi hanno sbagliato nei loro comportamenti di vita, per questo tutti e due soccombono.
M perché ha rinunciato alla sua femminilità, alla sua pietas di madre, sacrificando i sentimenti sull’altare del lavoro e della ragion di stato: in effetti lei rappresenta la Gran Bretagna intera, il mastino che non si piega di fronte a nulla, neanche al sacrificio dei suoi figli.
Silva invece perisce perché non riesce a sganciarsi dal meccanismo delle aspettative infantili di una madre “buona”, non riesce a lasciar andare il rancore per l’amore non ottenuto ed è incapace di ripartorire se stesso al mondo, al contrario di Bond che supera la delusione e va oltre, al punto di perdonare la madre che lo ha ripudiato, amandola per quella che è. Per questo può rinascere, e il ciclo compiersi, la vita rinnovarsi: Mallory prende il posto di M, e nel suo nuovo ufficio campeggia il terzo ed ultimo quadro importante di questo film: HMS Victory, Nelson's flagship, at Trafalgar, (“La HMS Vittoria, ammiraglia di Nelson, a Trafalgar”) sempre di Turner, dove vediamo, in opposizione alla Temeraria, una nave solcare il mare a vele spiegate.
Perché questo 007 ci piace più di tanti altri? Perché non è una mera sequenza di azioni eroiche e virili, come un resoconto delle sette fatiche di Ercole, ma entra nelle sfaccettature di un Ulisse che per riconquistare il suo potere deve morire e risorgere, imparare a conoscere se stesso e trovare la forza dall’elaborazione delle sue difficoltà, scegliendo di crescere, oltrepassare la linea d’ombra e accettare di essere fino in fondo “orfano”: cioè di avere solo se stesso su cui contare, come tutti noi.