Ci sono questi film la cui mancata visione mi dà quasi un senso di disagio, come stessi seduta al banco di scuola senza aver fatto i compiti. Questi titoli così famosi, le correnti di genere, i registi “importanti”: cose che si devono conoscere, in un contesto di media cultura qual è la mia. Quel minimo che mi consenta di stare su media e non mediocre, ecco, senza pretendere troppo.
Ogni tanto cerco di pitturare qualcuna delle mie macchie di leopardo, e di solito lo faccio con un’attitudine emotiva e sentimentale, pronta all’innamoramento artistico. Così ho iniziato a guardare Les Amants, un film del 1958 di Louis Malle – anni che ce l’avevo lì. Anche perché il suo Au revoir les enfants non solo mi era piaciuto molto, ma mi aveva proprio commossa.
E invece ho fatto fatica su questa storia così arida e falsa: la donna alto-borghese annoiata e sola, Jeanne, sposata all’uomo in carriera che la trascura e madre di una bambina di cui si disinteressa completamente, conosce un uomo all’apparenza meno arido del marito e dopo averlo inizialmente trattato con glaciale superiorità e sufficienza, finisce per cedere al suo corteggiamento, si innamora (?), e meno di 24 ore dopo fugge con lui, abbandonando sua figlia e lasciando il marito.
Tutto qui? Tutto qui. Questa la storia.
Nel senso: nessun personaggio è più approfondito di così.
Per di più, non ho trovato interessante neanche la regia, con inquadrature e movimenti di macchina troppo artefatti e studiati, invecchiati.
Di solito io non parlo di cose che non mi piacciono, preferisco il silenzio, visto che scrivo per il mio piacere. Ma questa storia mi continuava a restare dentro, e sentivo che non voleva passare e concludersi, che c’era un messaggio da dare oltre la semplice delusione filmica. E ho avuto l’intuizione che dovevo vedere Una separazione, il film dell’iraniano Asghar Farhadi, di cui avevo solo una vaghissima idea, visto che non leggo critiche di film prima di averli visti e recensiti –altrimenti non mi sento libera di parlarne.
La mia intuizione era giusta. Il film iraniano risponde con tutt’altri contenuti a Les Amants, rendendolo vacuo e superficiale. La coppia di separati si muove su tutt’altro terreno, c’è un dialogo tra loro, difficile, ma vero, e i sentimenti sono profondi. La donna, Simin, minaccia di chiudere la sua relazione con il marito, Nader, perché sente il bisogno di una realizzazione personale, e vorrebbe emigrare all’estero con lui e la loro figlia undicenne, Termeh. Finiscono per usarla, anche se involontariamente, e anche a manipolarne un po’ l’innocenza, facendole perdere fiducia nella loro forza morale rispetto all’essere sempre e comunque onesti, ma il loro amore per la figlia è sempre il centro focale di ogni loro azione.
In contrapposizione a Jeanne che ha un rapporto totalmente distaccato e assente con sua figlia, che abbandonerà senza esitazione e commiato di fronte alla prospettiva di un amore appena dischiuso e senza basi, Simin dice a proposito di Termeh «Sa che senza di lei non vado da nessuna parte».
La coppia iraniana arriverà comunque alla separazione, non sarà possibile trovare una mediazione come non lo è stato per Jeanne con l’algido marito, ma tra loro non verrà mai meno la consapevolezza di quale sia l’obiettivo a cui tendere: la protezione e il benessere della ragazza. E per quanto ci siano differenze socioculturali profonde tra Francia e Iran, il gap di più di 50 anni tra i due film è così grande che Jeanne ci sembra davvero una madre innaturale (anche perché non abbiamo motivazioni a sua giustificazione) e deprecabile, laddove ci tranquillizza il comportamento della famiglia di Teheran, dove tutti sbagliano, ma hanno il senso di quello che sarebbe giusto.
E quanto è bello, questo. Che restiamo così basiti dopo solo 50 anni quando ci immedesimiamo nel ruolo di genitori e valutiamo certi comportamenti. È bello perché vuol dire che siamo cresciuti, noi mondo, abbiamo iniziato ad assumere concetti di rispetto nei confronti dell’infanzia, diritti di protezione e presenza, senso di responsabilità. Che nonostante tutta la bruttezza e brutalità con cui facciamo i conti ogni giorno, tutto quello che vorremmo fosse diverso, un millimetro al giorno qualcosa cambia e migliora, e facciamo male a dare per scontato che sia così. Non lo è. E molto di ciò passa per il mondo filmico e televisivo. Scrivevo di questo anche a proposito della political correctness dell’ultimo Bond, Skyfall, il cui accenno più forte era forse quello relativo alla prostituzione minorile. Il mondo cambia e chissà cosa ci impressionerà di più tra 50 anni, di Una separazione.
Parlando per me, che non ho bisogno di aspettare i prossimi 50 anni, sono certa che sarà la visione del capo sempre coperto di tutte le donne iraniane del film. Non solo le donne: persino una bambina piccola ha in testa una sorta di velo, bianco, che la imbriglia e le dà fastidio. Che la rende meno libera e quindi meno bambina. Così come le donne: meno libere e quindi meno esseri umani. Orribilmente prigioniere del supposto odio dell’uomo nei confronti della donna, come ancora da noi solo le suore, velate per gli stessi mortificanti e inutili motivi. Come se il peccato fosse ciò che si nasconde, e non chi ti vuole sporcare con uno sguardo. Questo si vede benissimo ora, non c’è bisogno di aspettare 50 anni.
Tu, quore!, La poesia e lo spirito