Dolomiti Contemporanee, arte solida

Da quando sono nata la mia famiglia ha una casa nel bellunese, al confine con il Trentino, e se faccio la somma di tutti i mesi che ci ho passato, diventano almeno 6-7 anni della mia vita. Sono molti, e ce li ho scolpiti addosso, solchi d'amore e gratitudine. Quest'estate sono andata a Taibon Agordino a vedere una mostra, senza avere idea di cosa fosse, e sono rimasta colpita in modo potente dall'intero progetto. Dolomiti Contemporanee è una scatola che contiene idee profonde e vorticose, e ho sentito il bisogno di scriverne. Due pezzi, uno per Bcomeblog, un blog di arte gestito da Marianna Fratterelli e Giorgio Specioso, che sono due persone speciali, e l'altro per l'Unità.

Eccoli qui.

Dolomiti Contemporanee: il coraggio dell’ambizione

Conosco il ventre di queste valli da quando ho vita, il sapore ferrigno che ti lasciano in bocca certe loro solitudini quando cala il sole, d’estate; pareti intere di roccia trapanate di vecchie gallerie per i treni delle miniere che non passano più da cent’anni, finiti i tempi d’oro dell’estrattivo; le strade troppo vicine al letto del fiume azzannate dalle alluvioni del ’66, e le loro ragazze esodate a Roma o Milano a fare le balie o i mestieri; i paesini coi morti ammazzati su cui fare silenzio; il beyond-Cortina che ha arrancato, prima dell’era falsa ma rassicurante dei cannoni sparaneve; le mani grezze e scure di chi andava a falciare da quando aveva cinque anni, che negli anni sessanta e settanta scappava in Svizzera a incassare buste paga operaie al gusto di razzismo, o in America; e infine le fabbriche che alimentano il mito del Nord-Est, e quelle che non ce la fanno.

Conosco perché le ho respirate queste realtà, nascoste ai piedi dei picchi dei monti delle cartoline anni settanta, dietro il rossore dolomitico e un po’ schivo dei tramonti. Le ho trovate quasi tutte qui, a Taibon Agordino, dove il geniale e caparbio Gianluca D’Incà Levis, paròn, anima e soprattutto cuore del vibrante progetto “Dolomiti Contemporanee” ha allestito parte della sua seconda grande “annuale” d’arte contemporanea, dopo una prima edizione a Sass Muss, nel 2011.

Non si parla di un’operazione furba e chic, di aggiungere all’agordino un po’ di patina culturale, tutt’altro. Si tratta piuttosto di far parlare i luoghi attraverso l’ispirazione degli artisti, che nell’intento dei vari curatori di ciascuno spazio/periodo di esposizione, sono invitati a soggiornare nella regione, imbibirsene, e poi realizzare le loro opere. Che siano la natura o l’opus a essere rappresentati, l’artista non può prescinderne scegliendo di narrare solo se stesso, no: deve creare un’interazione, masticarla, digerirla, immetterla a partire dallo spazio espositivo, che di suo già è cornice, liquido amniotico. E gli spazi scelti non sono aree predisposte o museali ma il contrario ex fabbriche dismesse, capannoni orfani, scampoli di fallimenti che Dolomiti Contemporanee si dà il compito di riassorbire e rivitalizzare, non tanto per un gusto archeo-industriale fighetto, ma con l’intento di premere argento vivo nelle vene operaie/operose di queste valli, facendosi carico di una ristrutturazione edile che ne prevede poi un riutilizzo nuovamente industriale o artigianale/operaio: gli spazi rimessi a nuovo, finito il tempo dell’esposizione, sono messi in affitto a imprenditori e lavoratori.

E il legame con i luoghi è ancora più sottolineato da un’altra interazione tra opere e territorio: le decine di sponsor locali non sono dei contributori economici asettici, ma sono chiamati in causa soprattutto con l’idea che vengano coinvolti nelle viscere del processo creativo. Infatti la sponsorizzazione artistica si declina in molti aspetti, dal mettere gratuitamente a disposizione i materiali e i mezzi per la realizzazione delle opere, al dare accesso a stabilimenti e fabbriche, oppure fornire assistenza informativa sui processi di produzione. Insomma, per essere sponsor di Dolomiti Contemporanee non basta o non serve pagare, bisogna metterci anche materia, tempo, attenzione.

E la dedizione e l’amore spesi si sentono ad ogni gradino: sta qui la forza progettuale di questa incredibile macchina territoriale di cui l’opera artistica è un prodotto finale di sintesi. Forse è per questo che alcune opere sono davvero potenti e scavano un solco, come Das Katapult #, 2011 di Antonio Guiotto, ovvero una catapulta di tubi innocenti a cui si appoggia un badile pronto a sparare un mattone su cui campeggia la scritta “me”, come una contestazione a un mondo cementizio, o Mjollnirr, tra l'incudine è il martello, 2011, di Marco Di Giovanni, dove l’artista ha saldato un grosso manico di ferro a una vecchia incudine per dar forma a Mjollnir (che secondo la mitologia norrena è l'invincibile martello del dio Thor), a ricordare la potenza dell’uomo che violenta la natura per sottometterla, come le valli sono state violentate dal periodo minerario. O la forza della grazia di un nastro bluette da regalo che sembra soggiogare l’incanutita freddezza di un corrugato nell’opera Senza titolo, 2012, di Paolo Gonzato. Questo solo per citare alcuni tra i più ruvidi lavori esposti nel primo ciclo espositivo del Blocco di Taibon Agordino (chiuso il 9 settembre), in attesa che il secondo inauguri il 22 settembre. Ma tra le opere esposte ce ne sono molte di ironiche e giocose, provocatorie o meste, ognuna con la sua interpretazione della realtà circostante.

Abbiamo raggiunto Gianluca D’Incà Levis per farci raccontare altri dettagli sul progetto, in particolare una delle cose più interessanti di questa serie di iniziative, anche sotto il profilo emotivo: la riapertura di una scuola elementare chiusa 50 anni fa in seguito al disastro del Vajont.

Ci racconti questa storia?

“Il progetto per Casso è il secondo grande progetto DC dell'estate 2012, dopo Taibon Agordino.
Il Blocco di Taibon, o il grande complesso di Sass Muss (Sospirolo), che abbiamo attivato nel 2011, sono fabbriche che riesumiamo, e che teniamo aperte per tre mesi. In questo lasso di tempo, operiamo "aggressivamente", processando il maggior numero possibile di contenuti, all'interno degli spazi, che trasformiamo, da morti, in espositivi, ben vivi.
Il format prevede la riattivazione di questi siti, un focus culturale/artistico prolungato, che è una specie di flash lento. Dopo tre mesi, e due cicli espositivi, che vedono il passaggio di un centinaio di artisti, andiamo via. E spesso abbiamo innescato qualcosa di ulteriore. Muovere le cose sensatamente può provocare reazioni a catena: alcuni degli edifici, che abbiamo ripresentato all'interno di un meccanismo stimolante, vengono visti, affittati, queste risorse dimenticate tornano in circolazione, la loro riscoperta funzionalità è anche figlia di questa nostra modalità di presentazione: l'arte serve: l'arte va.
A Casso è un'altra cosa.
Casso è un paesino arroccato su un versante inclinato, in Comune di Erto e Casso, (Pn), Friuli, sul confine con il Veneto, in mezzo al Parco Naturale Dolomiti Friulane.

È un borgo di case fatte di pietra, con i tetti d'ardesia, ormai quasi del tutto spopolato: 15 abitanti residui.
A Casso ci sono altitudine, isolamento, natura potente, di bosco e di roccia.
A Casso c'è un'ex scuola elementare, chiusa dal 9 ottobre del 1963.
Quel giorno, dal Monte Toc, sul versante opposto della valle, si staccò una frana di 260 milioni di metri cubi, che provocò il disastro del Vajont.
La scuola elementare fu danneggiata dall'onda di risalita della frana, e da allora è chiusa.
È chiusa da 49 anni.
Ora viene riaperta.
L'amministrazione regionale ha ultimato da pochi mesi il restauro della scuola.
L'amministrazione comunale ce ne ha affidata l'apertura, e noi abbiamo presentato un progetto di gestione permanente dello spazio.
È stato analizzato, soppesato, il nostro lavoro, la capacità che abbiamo di riattivare siti, spazi, fabbriche.
E si è deciso che, in questo luogo, per questo luogo, era giusto, utile, necessario (dico io), attivare un dispositivo di progettazione culturale aperto, piuttosto che farci l'ennesimo spazio dedicato alla memoria, chiuso dalla memoria, schiacciato dalla tragedia.
Queste valli sono, ancora oggi, pesantemente segnate da quella tragedia.
L'idea è quella di costruire una macchina che lavori sul territorio, prevalentemente attraverso le arti visive, ma non solo, cercando di creare uno spazio di interazione, non uno spazio predato dal lutto, ma nemmeno uno spazio dimentico: un luogo che guarda avanti, nel quale si propongono stimoli rinnovativi, attraverso le idee, le riflessioni, le opere, le mostre.
Casso è un luogo in bilico, nello spazio, su quel pendio: nella storia, in bilico tra il grave passato e un domani imprigionato, difficile da liberare.
Lo spazio di Casso inaugura, dopo quasi 50 anni, con una mostra d'arte contemporanea, il cui titolo è Bilico.

È la ricerca di un nuovo equilibrio, attivo, dinamico, produttivo.

È in rifiuto del concetto di ineluttabilità della morte, al quale non si può permettere di divenire totalizzante, omnipervasivo, di sostituire l'istinto vitale. La memoria deve essere costruttiva. Altrimenti diventa un altro ammazzamento: l'ammazzamento quotidiano dei vivi. In questo modo, non rimangono superstiti, in alcun luogo.
L'arte, e la cultura, sono opzioni vitali. Se ben progettate, con le idee, con il vigore, portano oltre, sconfiggono l'inerzia, la mangiano.
A Casso l'idea è quella di realizzare un Centro per la Cultura Contemporanea della Montagna.
La montagna è spesso ridotta a cartolina. Trattarla non è facile, è anzi pericoloso: spesso si cade in retorica. Trattarla attraverso l'arte contemporanea vuol dire anche rifiutare la logica di uno sfruttamento dell'immagine della montagna, che avviene attraverso la replicazione sistematica dei cliché, luoghi comuni, stereotipi, con le strenne pseudoletterarie sulla natura-unica-culla-e-salvezza-dell'uomo.
A Casso, invece, lavoreremo sul nuovo, per Bilici, perché crediamo nella rigenerazione, nell'azione, nell'apertura, nel fattore rigenerativo, nello spostamento dei baricentri, mentali, concettuali.”

 

Questo il pezzo (in parte simile) per l'Unità, con la medesima intervista a Gianluca D'Incà Levis:

Dolomiti Contemporanee arte per le ferite del Vajont

[Il titolo che avevo dato io a questo pezzo era “Dolomiti Contemporanee: l’arte che sutura le ferite del Vajont”].

Nove ottobre millenovecentosessantatre. Una frana immane dal Monte Toc si ingoia una vallata, la spiana, lascia muti. Si ricostruisce e si va avanti con quella schiena forte e gli occhi un po’ socchiusi che hanno gli uomini e le donne di montagna, reticenti di parole anche con se stessi, ma la cicatrice resta, e così il brivido di orrore al solo sentire quel toponimo: Vajont. Nella valle un piccolo paesino arroccato, Casso, resta orfano di abitanti (al momento sono quindici) e la ferita ricevuta dalla sua scuola elementare 49 anni fa l’ha resa per sempre chiusa, zoppa, inutile, memento mori, devitalizzata. Fino a quando questa minuscola frazione, insieme a un altro paese, Erto, non deciderà che è giusto che i morti seppelliscano i morti, affidando alla vulcanica factory di DC – Dolomiti Contemporanee il compito di riportare alla vita quello spazio, e allestirlo con opere di artisti che hanno operato, nello stile DC, a partire dal contesto territoriale. Nasce così un lavoro di recupero prima di tutto architettonico dell’edificio (affidato ad un progettista bellunese, Valentino Stella),  che si arricchisce di una passerella puntata nello splendido vuoto del cielo montano, come il muso di un animale che annusi l’aria prima di uscire dalla sua tana. C’è grande emozione quindi per questo evento che ha un sapore decisamente più articolato di un mero art-show ma si propone prima di tutto un compito vitale e ricco. Il 15 settembre 2012 si inaugurano quindi a Casso (Comune di Erto e Casso, in provincia di Pordenone) sia una mostra d’arte che una scuola, per quanto con un compito diverso, grazie alla forza degli amministratori locali e la vis incredibile di Gianluca D’Incà Levis, ideatore e curatore, anima e soprattutto cuore del vibrante progetto DC – Dolomiti Contemporanee, che da un paio di anni è riuscito ad articolare progetti artistici di grande valore non solo creativo ma ricompositivo del territorio montano del nord-est. Il progetto DC è quello di far parlare i luoghi attraverso l’ispirazione degli artisti, che nell’intento dei vari curatori di ciascuno spazio/periodo di esposizione, sono invitati a soggiornare nella regione, imbibirsene, e poi realizzare le loro opere. Che siano la natura o l’opus a essere rappresentati, l’artista non può prescinderne scegliendo di narrare solo se stesso, no: deve creare un’interazione, masticarla, digerirla, immetterla a partire dallo spazio espositivo, che di suo già è cornice, liquido amniotico. E gli spazi scelti non sono aree predisposte o museali ma il contrario ex fabbriche dismesse, capannoni orfani, scampoli di fallimenti che Dolomiti Contemporanee si dà il compito di riassorbire e rivitalizzare, non tanto per un gusto archeo-industriale fighetto, ma con l’intento di premere argento vivo nelle vene operaie/operose di queste valli, facendosi carico di una ristrutturazione edile che ne prevede poi un riutilizzo nuovamente industriale o artigianale/operaio: gli spazi rimessi a nuovo, finito il tempo dell’esposizione, sono messi in affitto a imprenditori e lavoratori.

Abbiamo raggiunto Gianluca D’Incà Levis per farci raccontare altri dettagli sullo specifico progetto dedicato a Casso, che resterà aperto fino al 28 ottobre, chiedendogli di raccontarcene la storia.

“Il progetto per Casso è il secondo grande progetto DC dell'estate 2012, dopo Taibon Agordino.
Il Blocco di Taibon, o il grande complesso di Sass Muss (Sospirolo), che abbiamo attivato nel 2011, sono fabbriche che riesumiamo, e che teniamo aperte per tre mesi. In questo lasso di tempo, operiamo "aggressivamente", processando il maggior numero possibile di contenuti, all'interno degli spazi, che trasformiamo, da morti, in espositivi, ben vivi.
Il format prevede la riattivazione di questi siti, un focus culturale/artistico prolungato, che è una specie di flash lento. Dopo tre mesi, e due cicli espositivi, che vedono il passaggio di un centinaio di artisti, andiamo via. E spesso abbiamo innescato qualcosa di ulteriore. Muovere le cose sensatamente può provocare reazioni a catena: alcuni degli edifici, che abbiamo ripresentato all'interno di un meccanismo stimolante, vengono visti, affittati, queste risorse dimenticate tornano in circolazione, la loro riscoperta funzionalità è anche figlia di questa nostra modalità di presentazione: l'arte serve: l'arte va.
A Casso è un'altra cosa.
Casso è un paesino arroccato su un versante inclinato, in Comune di Erto e Casso, (Pn), Friuli, sul confine con il Veneto, in mezzo al Parco Naturale Dolomiti Friulane.

È un borgo di case fatte di pietra, con i tetti d'ardesia, ormai quasi del tutto spopolato: 15 abitanti residui.
A Casso ci sono altitudine, isolamento, natura potente, di bosco e di roccia.
A Casso c'è un'ex scuola elementare, chiusa dal 9 ottobre del 1963.
Quel giorno, dal Monte Toc, sul versante opposto della valle, si staccò una frana di 260 milioni di metri cubi, che provocò il disastro del Vajont.
La scuola elementare fu danneggiata dall'onda di risalita della frana, e da allora è chiusa.
È chiusa da 49 anni.
Ora viene riaperta.
L'amministrazione regionale ha ultimato da pochi mesi il restauro della scuola.
L'amministrazione comunale ce ne ha affidata l'apertura, e noi abbiamo presentato un progetto di gestione permanente dello spazio.
È stato analizzato, soppesato, il nostro lavoro, la capacità che abbiamo di riattivare siti, spazi, fabbriche.
E si è deciso che, in questo luogo, per questo luogo, era giusto, utile, necessario (dico io), attivare un dispositivo di progettazione culturale aperto, piuttosto che farci l'ennesimo spazio dedicato alla memoria, chiuso dalla memoria, schiacciato dalla tragedia.
Queste valli sono, ancora oggi, pesantemente segnate da quella tragedia.
L'idea è quella di costruire una macchina che lavori sul territorio, prevalentemente attraverso le arti visive, ma non solo, cercando di creare uno spazio di interazione, non uno spazio predato dal lutto, ma nemmeno uno spazio dimentico: un luogo che guarda avanti, nel quale si propongono stimoli rinnovativi, attraverso le idee, le riflessioni, le opere, le mostre.
Casso è un luogo in bilico, nello spazio, su quel pendio: nella storia, in bilico tra il grave passato e un domani imprigionato, difficile da liberare.
Lo spazio di Casso inaugura, dopo quasi 50 anni, con una mostra d'arte contemporanea, il cui titolo è Bilico.

È la ricerca di un nuovo equilibrio, attivo, dinamico, produttivo.

È in rifiuto del concetto di ineluttabilità della morte, al quale non si può permettere di divenire totalizzante, omnipervasivo, di sostituire l'istinto vitale. La memoria deve essere costruttiva. Altrimenti diventa un altro ammazzamento: l'ammazzamento quotidiano dei vivi. In questo modo, non rimangono superstiti, in alcun luogo.
L'arte, e la cultura, sono opzioni vitali. Se ben progettate, con le idee, con il vigore, portano oltre, sconfiggono l'inerzia, la mangiano.
A Casso l'idea è quella di realizzare un Centro per la Cultura Contemporanea della Montagna.
La montagna è spesso ridotta a cartolina. Trattarla non è facile, è anzi pericoloso: spesso si cade in retorica. Trattarla attraverso l'arte contemporanea vuol dire anche rifiutare la logica di uno sfruttamento dell'immagine della montagna, che avviene attraverso la replicazione sistematica dei cliché, luoghi comuni, stereotipi, con le strenne pseudoletterarie sulla natura-unica-culla-e-salvezza-dell'uomo.
A Casso, invece, lavoreremo sul nuovo, per Bilici, perché crediamo nella rigenerazione, nell'azione, nell'apertura, nel fattore rigenerativo, nello spostamento dei baricentri, mentali, concettuali.”

Foto fornita da DC