Era difficile predire che la scrittura di Yari Selvetella sarebbe diventata ancora più elegante e elaborata di come è stata nei suoi ultimi romanzi (avevo recensito per La poesia e lo spirito “Le stanze dell’addio”, candidato a suo tempo al Premio Strega). Ma così è stato. La cura della lingua gli consente di dipingere un piccolo ma universale mondo affettivo e emotivo in pochissime precise parole, necessarie e compiute, di una raffinatezza senza fronzoli.
Ne ho letti alcuni passaggi a alta voce per sentirne i suoni, le carezze ruvide che facevano alle mie orecchie, intanto che la storia mi trascinava via con la forza della sua corrente quasi subdola, consentendomi di entrare in stanze private con la scabrezza di una videocamera nascosta. È così: in questo romanzo si accede a un mondo come lo si potesse spiare, quotidiano e vero con la sua fatica, le sue paure, la sua noia persino, i gesti del cucinare, del pulire, gli odori di una casa, le voci dei figli – ciascuna unica e piena della sua storia.
Il suo protagonista narrante entra in scena deragliando di stanchezza, proclamando la sua epifania: non è più in grado di amare. Ho scelto di condividere con voi il primo capitolo del romanzo in questa videolettura.
Dopo queste parole, il narratore ci porta a capire la sua stanchezza di amare, pagina dopo pagina, fino a scarnificare quell’antico dolore di un lutto catastrofico che gira chiuso in sé stesso, incessante e grave come macina di mulino. Scava solchi nei quali, però, la vita si può ripiantare, buchi che si cicatrizzano e porte che si schiudono con speranza, lasciando capire che l’amore più grande è quello che sa lasciar andare.
Il mio passaggio preferito: “Noi che navighiamo tra gli stessi relitti, noi ci amiamo”.