Recensione di “Terrapiena” di Carola Susani

Un romanzo breve ma densissimo “Terrapiena” di Carola Susani, seconda tappa di una trilogia, un viaggio di scoperta con gli occhi di un ragazzino tanto ingenui quanto sapienti, rassegnati al fatto che non tutto si può capire.
Mi ha ricordato per certi versi Faulkner e ovviamente Pasolini, ma l’ho forse più visto che letto, come un film di Alice Rohrwacher.
C’è questo andare e venire sulla scena, che è la strada di un quartiere di baracche, un luogo liquido e corale, il contrario della nostra quotidianità tra quattro mura, ben prima che imparassimo a sillabare “lockdown”. Un luogo aperto, pieno di segreti che tutti finiscono per conoscere, di cui tutti sono attori. Un modo di vita popolare e impietoso, ma anche tollerante. Un luogo di passaggio da cui è però difficile andare via.
Una scrittura piena di sorprese, con momenti che arrivano come scoppi di temporale subito riassorbiti dalla strada che sempre riprende il suo fluire. Senza che sia necessario capire tutto.
Carola, parlaci di questa trilogia.
La trilogia su Italo Orlando è nata in un periodo, attorno al 2017, in cui mi ossessionava il tema del cambiamento. Come si fa a raccontare il cambiamento? Ora, ogni romanzo racconta in qualche modo il cambiamento, è nella struttura stessa del romanzo farlo, ma io sentivo il bisogno di tematizzarlo. In pochi anni la nostra condizione di vita è cambiata talmente che l’immaginario stenta a tener dietro alla realtà: globalizzazione, fine del blocco sovietico, immigrazione, delocalizzazione, cambiamento del mercato del lavoro, virtuale e iperconnessione, nuovo femminismo, e di contro, messa in discussione del valore della vita umana, caduta del valore della sepoltura e del lutto e così via. Il livello di complessità legato all’interazione fra questi e altri elementi mi lasciava paralizzata, così ho sentito il bisogno di interrogare il cambiamento stesso, l’effetto dell’attesa e dell’avvento del cambiamento sulle donne e sugli uomini. Mentre riflettevo così, mi è venuta incontro una figura, questo ragazzo Italo, che appare tutte le volte che un cambiamento radicale sta per compiersi. Così è nata la trilogia. Ho sentito bisogno di prendere la rincorsa, sono partita dalla promessa d’industrializzazione per il meridione a metà degli anni ’50, con “La prima vita di Italo Orlando”, sono passata a raccontare di sete di riscatto sociale, e qualcos’altro, l’embrione di una nuova libertà dei corpi con Terrapiena, scriverò nel terzo libro della trilogia di un nuovo cambiamento che mette in questione l’idea stessa della responsabilità e crea le condizioni del tempo che stiamo vivendo.

Perché è così cinematografico il tuo narrare?
Chi lo sa? Invento per immagini, forse per compensare quanto di troppo filosofico e allegorico c’è nell’impianto delle cose che scrivo. C’è stato un periodo, molti anni fa, in cui ho studiato sceneggiatura, anche da quello ho imparato a scrivere attraverso le immagini. Ma da quando ero adolescente ero ossessionata dall’idea di riuscire a rendere con le parole l’infilata delle montagne una dietro l’altra all’orizzonte, la prospettiva, le velature di grigi azzurri. Mi interessano però anche le voci, gli odori, le percezioni tattili, mi piace raccontare impantanando il lettore, perciò mi ci ritrovo quando hai parlato di Faulkner.

Qual è il tuo legame personale con ciò che hai raccontato in questo romanzo?
Ho vissuto dai quattro agli otto anni in Valle del Belice in una Comune di attivisti che aveva la sua base una baraccopoli nata dopo il terremoto. Mio padre e mia madre, architetti, avevano lasciato il Veneto dove avevano uno studio e una carriera accademica avviata, per raggiungere la Sicilia sulle orme di Danilo Dolci e unirsi a un gruppo molto interessante guidato da Lorenzo Barbera e Paola Buzzola. Tutto quello che racconto quindi, benché profondamente stralunato, somiglia quello che ho vissuto per davvero. Anche le vicende più atroci che racconto nel libro sono avvenute per davvero, anzi, si può dire, ho scritto il libro per fare i conti con quelle atrocità.

Chi ami di più in queste pagine? 
Mi sono innamorata di Ciccio follemente mentre gli davo voce. La sua fragilità, la sua ira, la sua sete. Tra le tante cose che questo libro è, è un’indagine sulla maschilità: Ciccio, Saverio sentono una prigionia, sentono che il mondo attorno a loro gli chiede di deformarsi per adattarsi e reagiscono ognuno a suo modo. Poi amo sempre Italo, la sua ambivalenza, la sua luce accecante. E amo la lontananza indagatrice di Dora, l’intelligenza generosa di Marco.

Pubblicato su La Poesia e lo Spirito