Su questo blog non parlo quasi mai di cose che non ho apprezzato. Sono sensitiva e naif, penso sia meglio non immettere negatività nel cosmo, e la critica scatena energie da evitare: per me queste righe sono un piacere gratuito di condivisione con voi, non un mestiere. Ma farò un’eccezione per La grande bellezza di Paolo Sorrentino per due motivi principali: il primo è che alcuni lettori di Tu, quore mi hanno esplicitamente richiesto di scriverla (e alé!); il secondo è perché Sorrentino ha un grandissimo talento, che da solo merita menzione e attenzione. Se fossi la sua zia acida, gli direi di smettere di scrivere i soggetti delle storie che gira, e di cercare piuttosto belle sceneggiature scritte da altri. E l’altra cosa che gli direi, se fossi il suo zio arrogante, sarebbe di cercare di fare meno il fenomeno con la cinepresa, ché ogni inquadratura la gira arzigogolata per far vedere che è bravo e ha le idee, ma così diventa come quei bambini che giocano da soli ma si girano a guardare la mamma per farsi dire che son bravi: se lo spettacolo di marionette è fatto bene, non ti accorgi mai delle mani che muovono i fili. Non sempre la spettacolarità fa cinema, secondo me.
Ma veniamo al film, con una premessa fondamentale: io comprendo perfettamente le persone a cui questo film è piaciuto e anche i motivi per cui l’ha fatto. Non solo perché l’arte, per me, è “giudicabile” solo con un metro semplice e ultrasoggettivo: dà piacere/non dà piacere, e il resto sono sovrastrutture, e che questa pellicola abbia un valore artistico è fuori da ogni dubbio. Ma soprattutto perché è un film ricco di stimoli visuali e evocazioni simboliche, dalle più clamorose –come le feste notturne – alle più sottili, come i fenicotteri sul balcone, o l’ascesa della scala santa.
La grande bellezza sembra essere un remake de La dolce vita, di fatto, con momenti anche presi da Roma. Tutto pare indicare questa direzione, dalla cosa più semplice (la struttura del titolo) alle frequentissime citazioni/evocazioni. E in effetti quest’opera è un grande affresco della Capitale dei nostri tempi, e quindi un po’ anche di tutto il nostro paese, ma un affresco rinascimentale: si parla solo del clamore, del vippismo, di ciò che conta e riluce, come fosse una piena metafora del mondo televisivo: nei riflettori solo “quello che conta”, il resto è ombra, piccolezza, marginalità. In questo senso, a titolo personale, ho trovato noioso questo film: narra di cose a me distanti, che trovo inutili, ininfluenti, del Potere allo stato puro e quindi distante dall’Uomo, quasi suo antagonista.
Ma soprattutto, quello che mi allontana dal piacere di questo lavoro è che ho trovato non ci fossero sentimenti veri, momenti di reale dolore o tragedia, pura perfidia o autentico amore. Tutto è così superficiale, telefonato, illambente, le emozioni raccontate; nulla pare serio, concreto, vivo, neanche la disperazione. Troppe cose sono solo sfiorate ma non germogliano mai, non vanno a segno, e le “frasi importanti” che vengono sottolineate con grande fanfara di sceneggiatura alla fine sono di una banalità abissale, ovvietà da romanzo di cassetta, retoriche in modo imbarazzante, autoconsolatorie e inutili. In questo senso anche le forti idee registiche di Sorrentino finiscono per diventare solo delle “trovate”, perdono l’anima, non riescono a narrare, e forse la fanno perdere persino un po’ ai bravi attori, dal grande Servillo, che sta a questo film come Mastroianni sta a La dolce vita, alla Ferilli, che ha trovato un registro magnaniano piuttosto alto, e con Verdone che dopo un inizio ruvido e macchiettistico entra bene in parte. In sostanza, ritengo che la levità felliniana diventi qui superficialità, fatto solo salvo un personaggio realmente drammatico e grottesco, che mi ha lasciato un solco doloroso: Serena Grandi, tragica caricatura di se stessa.