Recensione a “Il nome giusto” di Sergio Garufi

Sincero, dolente, affettuoso, scoperto. L’esordio romanzesco di Sergio Garufi, blogger garbato e erudito, uno dei maggiori conoscitori di Borges in Italia, è un obiettivo centrato in pieno, emanativo di cultura e sentimento, in equilibrio tra passione e cesello, soprattutto linguistico. Una prosa simile a quella dei talenti italiani recenti, come Lagioia e Desiati, che si àncora certamente di più alla tradizione del dopoguerra come Bassani, Buzzati, Flaiano, ma anche l’Ugo Pirro autobiografico di “Solo un nome nei titoli di testa”, e soprattutto il magnifico Bianciardi de “La vita agra”, piuttosto che cercare di imitare una prosa moderna con artifici stilistici a effetto. Per quanto Garufi utilizzi glosse infrequenti a costo di apparire eccessivamente ricercato, è raro che le ostenti fino in fondo: le stempera di umiltà nel magma testuale fino a rasentare la autoumiliazione. È questo bilico che rende le sue pagine così larghe e persino eroiche, in alcuni momenti, ma al contempo così umane, commoventi e oneste.
Garufi racconta se stesso come fa da sempre nel suo blog, usando qui l’espediente romanzesco del morto che fa da io narrante, cucendo la trama della sua vita attraverso quella delle persone/personae che acquistano i suoi libri presso un venditore di volumi usati, Lino, con il quale condivide un pacato e rassegnato senso di fallimento di vita. Milanese trapiantato a Roma per un amore che vive come ultima Thule del suo inconcludente excursus sentimentale, il protagonista-narratore morto in un incidente stradale assiste alla lenta svendita del suo unico vero patrimonio – la sua preziosa biblioteca – come allo smembramento di parti del suo corpo, sezioni di materia biologica su un tavolo autoptico.
Da ogni libro o rivista rara venduto, che sia di arte o di letteratura o critica, sgorga una piccola narrazione di sconosciuti acquirenti dipinti con brevi ma efficaci pennellate che consentono, che cuciono insieme, l’affresco finale della sua biografia.
E quello che resta completata la lettura, più che gli aneddoti o gli amori, le vittorie ma soprattutto le sconfitte, è alla fine una lunghissima lettera di addio al padre morto suicida. La lettera di un figlio che è stato abbandonato e che proprio per questo ama – con impegno sensibile e delicato – il figlio della sua ultima, definitiva compagna Anna, un bambino cambogiano adottivo che il protagonista sceglie, adottandolo nel profondo e cicatrizzando la sua sensazione di abbandono, risarcendosi di ciò che ha perduto. L’io narrante si fa padre di se stesso, e raccontandosi si ricostruisce. Per questo è necessario che la zavorra cartacea della sua biblioteca si puntinizzi come un Seurat decomposto: deve lasciarla andare, la sua stampella, il suo rifugio dal sentire, per poter vivere davvero. La dissoluzione metaforica del suo passato è necessaria perché solo se smantella le sue difese può diventare davvero uomo, davvero padre: la morte come momento della rinascita, il ricongiungimento e il perdono al padre suicida per poter amare finalmente la donna giusta, la donna perfetta, quella splendida figura di Anna che sa essere moglie, amante e madre come solo la Donna Giusta può essere.

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