Si è scritto moltissimo e a ragione su questo film dell’esordiente Benh Zeitlin, regista trentenne autore di un piccolo capolavoro che –pur non avendo vinto nessuno dei quattro Oscar a cui era candidato – ha pur sempre meritatamente ottenuto le nominations. Un film girato con freschissima maestria, e con un impostazione che ricorda Rosetta dei Dardenne tanto nei contenuti psico-sociali quanto in quelli schiettamente filmici.
È la storia di una bambina seienne, Hushpuppy, che vive con il padre in una baracca, allo stato quasi brado, in una regione paludosa della Louisiana soggetta a esondazioni. Il padre malato e alcolizzato si occupa rudemente e sciattamente di lei, puntando a renderla un’adulta per evitare di assumersene vere responsabilità.
La madre non vive con loro, non sapremo mai se l’abbia lasciata al suo destino o se sia morta, e la bimba per sopravvivere alle sue condizioni di semi-abbandono e vincere le sue paure di sopravvivenza crea un mondo fantastico in cui si rifugia, nonostante sia anche popolato da creature inquietanti: animali selvaggi e preistorici rimasti intrappolati ai Poli durante la glaciazione che a causa del riscaldamento globale tornano – deibernati e vivi – a camminare sulla terra. E qui come al solito bisogna parlare del titolo del film, in originale Beasts of the Southern Wild (letteralmente Bestie del sud selvaggio) che in inglese resta ambiguo rispetto alla storia: chi sono le “bestie”, gli animali preistorici o gli umani? E se sono gli umani, chi li vede come tali? Il regista o il “mondo civile” di cui vivono ai margini? In italiano ha subito la mistificatoria traduzione di Re della terra selvaggia. Non c’è un Re, semmai ci dovrebbe essere una Principessa, tuttavia questo “errore” di genere già ci porta in effetti nella direzione giusta. Nella traduzione, in nuce, il delitto di questa storia: la creazione di un Re da una bambina: negata la sua infanzia, il suo diritto di protezione e di cura. Al posto di questo, un falso potere, una falsa forza, una forzatura: la bambina è obbligata a trasformasi in una super-ragazzina, una Pippi Calzelunghe senza gioco, e nessuno che si accorga di quanto innaturale e ingiusto sia, nessuno degli amici alcolizzati e derelitti del padre che lo rimproveri di maltrattarla, tutti sono complici e favoreggiatori della sua solitaria crescita. Non che il regista faccia un plauso di questo padre, in effetti: Zeitlin resta forse “neutrale” rispetto a questa figura, limitandosi a raccontarla, ma non condannandolo di fatto lo assolve. Manca al film il momento del ribaltamento della prospettiva, qualcosa che riporti appunto un ordine etico, se non morale, in questa realtà scorticata; qualcosa che lasci vedere un’altra parte di sguardo, come ad esempio nel musical Hair il pezzo in cui la moglie del ragazzo hippie di colore canta Easy to be hard e fa capire che è inutile ammantarsi di grandi ideali di fratellanza se poi si abbandonano moglie e figlio. Questo momento non c’è mai, ed è una sconfitta totale dell’infanzia quando la bambina verso il finale rassicura il padre morente mostrando i muscoli ed entrando in un urlato crescendo in cui lui le chiede “Chi è l'uomo qui?” e la bimba risponde “Io sono l'uomo”: ecco il Re-bambina, la bambina-soldato, sprotetta. La bambina inascoltata nei suoi bisogni, come indica il suo nome Hushpuppy (letteralmente azzittisci-cuccioli), il nome di un dolce regionale che i cacciatori davano ai cagnolini troppo euforici, per farli stare tranquilli durante la caccia. Tenuta buona, che non voglia altro, che non chieda altro. Ma cosa potrebbe chiedere una bambina? Con quali mezzi emotivi può indicare i suoi desideri che non siano compiacere un padre brutale? Mentre la Rosetta dei Dardenne voleva “una vita normale” e lo ripete tutto il film perché capisce e sa articolarne il concetto, cosa può scegliere Hushpuppy? Nulla, solo accettare un modello imposto da un adulto irresponsabile anche nella morte, e dalla comunità in cui questo adulto si muove e prende sostegno, che guarda solo a se stessa, alla propria indisturbata conservazione.
Ma c’è un altro fortissimo tema di cui parla il film, ed è uno dei più forti e fondativi concetti di tutta la cultura – soprattutto letteraria – della nazione statunitense: il mito della natura come Giardino, che non andrebbe contaminato dalla modernità, dall’industrializzazione, dove il Selvaggio è per sua natura Buono, e la Macchina qualcosa che distrugge. È una forma di ecologismo ante litteram che esiste dall’era preindustriale di metà ottocento, sancito da romanzi ampiamente metaforici (Moby Dick in testa) ma anche dai romanzi avventurosi di Mark Twain, soprattutto Le avventure di Huckleberry Finn. Questo mito “fondativo” dell’ ‘800 americano (che si connota sempre di più come ecologismo nell’era moderna) permea di sé il film dove la piccola Hushpuppy dichiara con assertività “se un pezzo si rompe, anche il più piccolo, l’intero universo si rompe” a intendere che tutto nel pianeta deve vivere in armonia, similmente alla teoria di Lorenz sul battito d’ali della farfalla in Brasile che crea un tornado in Texas. C’è il senso della perdita del paradiso in questa storia dove una diga impedisce alle acque di defluire, gli animali e le piante muoiono, tutto si distrugge e tornano le bestie selvagge a rimpossessarsi della terra: la Macchina nel Giardino toglie spazio alla Natura e quindi all’Uomo.
Huckleberry Finn è un riferimento fondamentale per comprendere Re della terra selvaggia perché Huck e Hush (i loro nomi abbreviati sono quasi identici) sono di fatto lo stesso personaggio, e si trovano a vivere in sostanza le stesse “avventure”. Sarebbe inutilmente lungo elencare tutti i punti di contatto tra i due protagonisti, ma resta fondamentale cercare di capire quale enorme concentrazione di riferimenti culturali e mitici siano contenuti in questa pellicola, fino a portarla a un livello epico. Questa “operazione” è quella che di fatto toglie una possibilità, quasi una volontà di giudizio sugli altri aspetti legati alla psiche della piccola Hushpuppy, che tenta invano di non perire nei suoi aspetti femminili e infantili.