Un racconto pubblicato su La poesia e lo spirito e su Unonove.
I miei commenti stavolta sono in coda al brano.
Piazza Raudusculana
La madre lo aveva aiutato a preparare due valige. Una grande, e una più piccola. Nella grande c’erano anche i dizionari di italiano e latino. Macigni neri. E poi tutto l’occorrente di vestiario e cartoleria per un autunno, un inverno e una primavera in collegio, a Perugia.
Era lontanissima Perugia dalla provincia di Reggio Calabria, nel 1934. Era come andare talmente lontani che anche le facce della gente non erano più quelle. Visi e capelli strani, idioma diverso.
Un treno da prendere, a Rosarno. E bisogna cambiare, prima a Roma e poi a Orte. Ma a Roma lo viene a prendere suo fratello Vincenzo perché suo padre gli ha scritto: gli ha mandato un cartolina postale, stamattina. Che si trovi domani a Stazione Termini alle nove a prendere suo fratello Totò che viene col treno notturno, e mi raccomando puntuale.
Enzo è a Roma che studia, al liceo. Dorme in una stanza ammobiliata, in una piazza che ha un nome difficile: il ragazzino se l’è appuntato su un foglio di carta e l’ha messo dentro il portafogli insieme alle poche lire che gli ha dato il padre. Piazza Raudusculana, numero 11. Undici come i suoi anni, non se lo può dimenticare. Il nome della piazza sì però, è difficile da mandare a mente, per questo l’ha voluto scrivere. Ma è solo una precauzione perché suo fratello Vincenzo sarà lì a aspettarlo domani mattina, alla testata del treno. Perché suo padre gli ha mandato la cartolina. Peccato non abbia telegrafato, dice sua madre. Ma il marito risponde con una smorfia seccata.
Farà una notte a Roma così si riposa e saluta suo fratello, che lo aiuta per le valige sia all’arrivo, sia quando riparte il giorno dopo per Orte. Lì dovrà cambiare di nuovo, da solo. Ma avrà una cosa in meno da portare: questa scatola di scarpe piena di uova freschissime che gli ha dato sua madre all’ultimo momento «Portale a Enzino, poveretto chissà come mangia male lì da solo, a Roma. Fai attenzione che non si rompano!».
Totò aveva provato a sentire il peso della valigia grande sollevandola dalla maniglia, prima di uscire di casa. Gliel’aveva portata giù suo padre dalla sua stanza nel sottotetto, al terzo piano; l’aveva messa giù all’ingresso davanti alla porta. Il ragazzino era riuscito a sollevarla, un po’, ma per spostarla doveva fare passetti piccoli piccoli. Un’ora più tardi erano andati a Rosarno, dopo i saluti e i baci appiccicosi delle sorelle grandi, troppo grandi, ché Totò era il più piccolo e i fratelli di mezzo se li era presi quasi tutti la Spagnola.
Il padre portava entrambe le valige, lui lo seguiva lungo il binario con in mano la scatola delle uova. L’aveva messo a sedere sul vagone caricando i colli sulla reticella portabagagli, in alto in alto. Il ragazzino aveva sollevato lo sguardo perplesso, ma non aveva osato dire niente. Il padre gli aveva dato un buffetto prima di scendere dalla carrozza. Il capotreno aveva fischiato e Totò non era riuscito a capire se gli avesse detto qualcos’altro, mentre si allontanava di schiena.
Aveva dormito quasi tutto il viaggio, gli piaceva il dondolio del treno, il suono ritmato, i fischi, la puzza dei freni. Si era svegliato contento al mattino, protagonista di un’avventura. Era bel tempo a Roma. L’ultima mezz’ora l’aveva fatta con la testa fuori dal finestrino a prendere il vento, a guardare il paesaggio sempre più denso di case e veicoli di ogni tipo. A Termini un signore gli aveva tirato giù le valige, e gliele aveva poggiate sul binario. «Ce la fai regazzì?»
«Sissignore grazie, qui c’è mio fratello che mi aspetta.»
«Allora a posto, ti saluto.»
Aveva portato le valige una alla volta: la grande da sola, quella più piccola insieme alla scatola delle uova. Faceva dieci metri, appoggiava quella grande, tornava indietro e prendeva l’altra, ripartiva con quella pesante, e così via fino alla testata del treno. Non riusciva a vederlo, Enzo. Sicuramente stava arrivando. Totò non era capace di sedersi neanche per cinque minuti sulla valigia: continuava a tirare il collo cercando di scorgerlo nella folla, ma non lo vedeva da nessuna parte. «Sta arrivando. Ha avuto un contrattempo ma ora arriva.» si diceva, mentre l’orologio grande e bianco faceva girare la lancetta sulle dieci. No, doveva essere successo qualcosa. Ma lui aveva l’indirizzo, pensò. Era facile: poteva andare a casa sua e aspettarlo lì. Portò fuori il bagaglio, dieci metri alla volta, e sul piazzale tirò fuori il biglietto dal portafoglio «Piazza Raudusculana 11» sillabò. Lo rimise in tasca e iniziò a chiedere ai tramvieri che stavano in piedi a parlottare nella pausa di servizio. Nessuno conosceva quella piazza. Capirono dall’accento che veniva dal sud e gli dissero che forse aveva capito male, forse era Piazzale Tuscolano. «Ma sì, deve èsse quello. Venghi regazzì, vie’ co’ me, er tramve mio fa capolinea là, ar piazzale. Scenni e chiedi.»
Totò aveva preso il bagaglio e l’aveva seguito fino a Via Regina Giovanna di Bulgaria, che ora si chiama Via Amendola, dove c’erano i capolinea della Stefer. Era salito sul tram, pagando il suo biglietto da 50 centesimi. Tantissimi, per il suo portafoglio. Il viaggio fu lungo, con la corsa che finiva in uno spiazzo in mezzo al nulla, un cantiere di palazzi ancora da finire. Scese dal tram con il cuore pesante, la mano a coprirsi gli occhi dal sole ancora forte di Settembre. Che poteva fare?
Il conducente che stava per ripartire dal capolinea lo chiamò «Regazzì, nun po’ esse’ qua, qua nun ce sta gnente. Arisali sopra, daje, che te riporto da dove semo venuti e magari chiedi a qualcun altro.»
Totò fu contento di tornare alla stazione, gli pareva meno tetra e spaventosa di questo luogo largo e vuoto. E avrebbe chiesto ancora, sì, avrebbe chiesto e trovato. E non gli fecero ripagare il biglietto. Questo era di buon auspicio, no?
A Termini l’uomo scese senza dirgli più nulla: era di nuovo solo, con i suoi macigni. Chiese ai vigili, a un altro tramviere, ma questa piazza non la conosceva nessuno, possibile? Restò fermo all’angolo con Via Cavour, interdetto, fino a che vide un tram con la scritta “L7” che stava facendo la fermata lì. D’istinto chiese al conducente se conosceva Piazza Raudusculana, ché lui doveva andare lì. «E come no? Monta regazzì, monta, che te ce porto io.»
Trovata!
Il tramviere gli chiese se voleva scendere alla prima o alla seconda fermata di Piazza Raudusculana, che oggi si chiama Piazza Albania. Totò non sapeva, forse la prima? Scese con le valige sempre più pesanti, camminando dieci metri alla volta, avanti e indietro, con i suoi tre colli, verso il piazzale. Era arrivato, era quella: c’era la targa sul muro! E mentre cercava il numero 11 vide una sagoma conosciuta correre verso la fermata del L7 in direzione opposta, che stava frenando per farlo salire «Enzooo!! Enzoooo!!!» gridò con tutta l’aria che aveva in corpo. Guardò suo fratello cercarsi intorno con gli occhi carichi di ansia e speranza, vederlo e corrergli incontro, con in mano la cartolina appena consegnata dal postino.
Vincenzo morì qualche anno dopo, finita la guerra, comandante in seconda di un aereo di linea in servizio da Pisa a Roma Ciampino, inabissato a largo di Civitavecchia dopo essere stato colpito da un fulmine. La prima tragedia della storia dell’aviazione civile italiana.
Totò invece compie ottantotto anni quest’anno, se il cuore non fa i capricci. Ed è mio padre.
[Non ho mai festeggiato molto la festa del papà, ma quest’anno ho voluto omaggiare mio padre del suo passato doloroso. Questo racconto è per lui.
Ed è anche dedicato a Guido Chiesa, che si mette in discussione per essere un padre migliore ogni giorno, insegnando me a essere una migliore figlia. Grazie.
Infine, c’è un pensiero affettuoso e commosso per Gianbattista Schieppati, un amico scrittore di Brescia che ho accompagnato in questa piazza 71 anni più tardi a firmare il contratto per il suo primo bellissimo romanzo, senza sapere allora che era stata luogo dell’incontro tra due fratelli. Lui sa perché.]