“L’ultimo giorno” – un racconto per Lpels

[Un racconto che ho lasciato nel cassetto per molti anni, ma che ho voglia di tirare fuori proprio in questi giorni. Una buona musica da ascoltare durante la lettura potrebbe essere questa, se avete voglia. Grazie.]

L’ULTIMO GIORNO

Quando la mattina si incamminava verso il lavoro in genere albeggiava. In silenzio, scendeva a valle insieme ad altri, ognuno a passo diverso, chi con asini, chi con ceste, chi con niente, come lui, sentendo solo il rumore dalla terra sabbiosa che scricchiolava sotto i sandali, dando un ritmo cullante al cammino. Solo qualche sporadico camion saliva a quell’ora in senso contrario verso il suo villaggio, mischiando acre gas di scarico e polvere in un’unica nuvola nera.

Il capannone dove Sami cuciva palloni era al centro della vallata, e al suo interno si respiravano odori innaturali e misteriosi. Otto anni prima, il primo giorno che era entrato, la fabbrica lo aveva accolto con quell’odore, in una penombra che rispetto alla luce esterna gli era sembrata buio completo. Il suo piccolo diaframma aveva dato un guizzo di oppressione. Ma era grato per quel lavoro, un privilegio, che aveva avuto perché sua madre era vedova e suo zio era benvisto nel suo piccolo paese. Il privilegio era avere otto anni e cucire palloni.

Il cuoio lucido e carnoso che lavorava gli dava un senso di carezza a confronto con la ruvidezza della pelle delle sue mani, e pareva restare sempre fresca, come squama di serpente. Tra l’indice e il pollice gli si era formata una callosità ancora più ruvida color bruciato, dove la pelle era insensibile.

Le sue due sorelle tra poco sarebbero state pronte per andare spose, ma i soldi disponibili per la dote non sarebbero bastati a garantire dei buoni mariti. Con grossi sacrifici era riuscito a mettersi da parte qualche risparmio in quegli otto anni di lavoro. Metà della sua vita bambino, l’altra mezza già uomo.

I suoi palloni andavano via, li vedeva mettere nel cellophane e poi in grossi cartoni, che una volta a settimana venivano caricati su dei camion, e scendevano a sud, verso il mare, poi terre lontane, dove giocavano il calcio della TV, nel mondo dei desideri accessibili. Sami invece aveva desideri piccoli, che stavano in una mano sola; giusto un po’ di sicurezza, praticamente polvere per il mondo d’occidente. Per averla bisognava partire, arrivare lì e cercare fortuna, Inshallah. Un pensiero inquietante che lo incalzava, paura e desiderio insieme. Lo zio gli aveva fatto capire che era stato deciso questo per lui.

La prima volta era successo per caso. A fine giornata un suo capello era scivolato all’interno di un pallone, mentre stava per finirne la cucitura. Aveva provato a toglierlo ma era un’operazione troppo faticosa e quindi alla fine aveva deciso di lasciarlo lì. Tornando a casa non riusciva a smettere di pensare a quel suo capello, se l’immaginava nell’oscurità del pallone, del capannone, in partenza per un viaggio. Una minuscola parte di lui sarebbe salita sul camion quella settimana, verso paesi lontani e desideri di polvere accessibile.
Allora aveva iniziato a farlo di proposito, a mettere furtivamente un suo capello in ogni pallone che chiudeva. Tanti capelli lisci e neri che nessuno avrebbe mai visto. Si strappava un capello, si mandava via un pezzo alla volta.

Una sera, dopo essersi lavato e aver pregato, aveva sentito un furtivo bussare alla porta. Aprendo lentamente sul buio, aveva riconosciuto a stento lo zio, che gli aveva fatto cenno di restare in silenzio e seguirlo. Si erano avviati lungo un viottolo che portava verso gli orti fuori dall’abitato. A fianco dell’ultima casa del villaggio cresceva un cespuglio di piccole rose rosse, le uniche del paese. Passandoci davanti Sami aveva inspirato con desiderio il loro profumo, più intenso nella notte, provando piacere ma anche un senso indefinito di nostalgia, come se quel profumo non appartenesse né a lui né a quel luogo ma portasse un significato distante e incomprensibile.
Uno straccio chiaro era rimasto abbandonato sopra un muretto a secco, e nella luce lunare ora splendeva, come un invito; si erano fermati lì e lo zio gli aveva detto a bocca un po’ storta che era tutto organizzato, sarebbe partito due giorni dopo dandogli tutte le istruzioni sul suo viaggio. Il primo camion, il secondo, la barca, il giubbotto da comprare con i dollari cuciti nei pantaloni, i numeri di telefono da imparare a memoria. Aveva sentito una scossa e un senso di debolezza Sami, ma era il suo destino ed era per il bene di tutti. Quindi nessuna discussione. Da lontano avrebbe provveduto meglio ai suoi, avrebbe mandato soldi a casa per sua madre, le sorelle e poi via via gli altri del villaggio, come anelli d’acqua in uno stagno. Li avrebbe aiutati, tutto il villaggio. Era un prescelto. Era fortunato.

Oggi è l’ultima discesa verso la valle e la fabbrica di palloni, l’ultima mattina di sabbia sotto i sandali. Cammina riluttante ma allo stesso passo di sempre, consumando nel silenzio un rituale di addio a ogni cosa.
A metà giornata esce dal capannone per andare alla latrina e mentre cammina per rientrare sente lo scricchiolio dei suoi sandali sulla terra. Allora si china sulle ginocchia e raccoglie un po’ di sabbia nel pugno. Resta qualche istante piegato sotto il sole a guardarsi i piedi come se se li vedesse per la prima volta, poi fissa la callosità bruciata tra l’indice e il pollice, e il suo pugno, come fosse legno. Rientra e lo apre lasciando cadere furtivamente la sabbia raccolta nel pallone, e poi lo cuce stretto.

Prende gli ultimi soldi e la strada del ritorno, con il sole che si squaglia nella roccia. Sami è come al solito esausto, ma contemporaneamente vigile e all’erta. A casa madre e sorelle servono in silenzio una cena d’addio. Alcuni uomini del villaggio vengono per i saluti e le benedizioni. Ci sono troppe cose da dire per poterne parlare. Non vede l’ora di restare solo, vuole silenzio per le sue emozioni. Quando tutti sono andati, si sente completamente sveglio. Esce nella notte, cammina fino agli orti cercando il profumo delle rose. Tornando indietro, appoggia la mano sull’intonaco della casa, in una carezza di addio di cui si vergogna subito; ma prima di fare in tempo a ritrarre la mano si accorge che il suo callo ha lo stesso colore della casa, e della terra.

Pubblicato su La poesia e lo spirito