Un pezzo a cui tengo molto, uscito oggi per Nazione Indiana, con un mio scatto californiano.
L’insostenibile del futile: una famiglia americana
Non so se si possa definire una festa, questa. Ci sono degli ospiti ma soprattutto delle ospiti qui, donne perlopiù sposate con eventuale marito al seguito. Poi c’è da bere e da spiluccare, in cucina.
La cucina è grande come metà del mio appartamento, affaccia su un salone e un’area pranzo. Tutti insieme sono più grandi di casa mia, e si affacciano sulla pool area, che invece non è enorme: una piscina da telefilm middle-class. La proprietà non vale più di 800 mila dollari, col mercato immobiliare del momento.
Siamo nella zona della “Valley”, la vallata anonima a ridosso di Los Angeles regno diurno delle casalinghe, coi loro bambini e cani middle class. Ce n’è uno anche qui: un classico golden retriever che per la festa resta confinato in giardino; gigione, grasso, e molto carino. È tutto very nice, qui.
La cucina con i piatti dello spilucco arrangiati come un ristorante da 80 euro a coperto: formaggi con le loro posatine, marmellatine, crackerini di ogni foggia, mirtilli che non sono rotolati sul tagliere per caso, grappoli d’uva e vino italiano, birra, diet cola e qualsiasi altra cosa più potente, da bere liscia o scivolata on the rocks, sui cubetti di ghiaccio emanati direttamente dal frigo. Non possiedo un televisore ma questo telefilm l’ho già visto. Va in onda una famiglia molto carina, che si vuole bene. Madrepadreduefiglie.
Le due figlie sono adorabili, adorable si dice qui. Brave e studiose, curate e graziose, pulite. Creative ma non eccentriche. Il padre lavora nel cinema, grandi produzioni per costruzioni di set, occupazione dall’ingaggio precario come tutti i mestieri del cinema, ma molto redditizio. La madre invece non ha lavorato per anni: casalinga.
Ma questa non è un festa, dicevo, nonostante il formaggio e le marmellatine. Il grande atrio della villa infatti è pieno di vestiario e accessori, non solo messi sugli stand appendiabiti ma anche appoggiati qua e là insieme a accessori e bigiotteria varia. Gli invitati – ovvero le invitate – sono qui per fare shopping, non per piluccare mirtilli. Sì perché la padrona di casa qualche mese fa un bel giorno si è guardata intorno e si è scoperta la casa sommersa di vestiti, i suoi e quelli delle sue due figlie; cose magari usate due volte, comprate dicendo “uh ma quanto è carino, ma quanto mi piace, costa pochissimo, questo mi serve!” e poi lasciate lì, magari appallottolate per terra dopo mezza giornata: “non mi sta bene questo colore” o “lo vedi che mi ingrassa?” con la carta di credito di casa che scivola in continuazione dentro e fuori il POS, senza pensare: sacchetti colorati e svendite, beni acquisiti e dimenticati perché poi alla fine ci si veste sempre uguale, con quei jeans che stanno comodi, quel top nero che sfina e gli stessi sandali ai piedi. Ma non si può smettere di comprare perché il “mall”, il centro commerciale, è l’unica attrazione da queste parti. Non c’è la piazza, non c’è il baretto, la stradina, il parco cittadino, il pranzo da mamma, la scampagnata fuori porta: è allo shopping mall dove tutti si incontrano e passeggiano, fanno le gite. Ma soprattutto comprano, comprano, comprano. Al meno possibile, certo, perché sono tempi durissimi e la disoccupazione manda gli stipendi al ribasso, ma comprano lo stesso, accumulano, gonfiano le cabine-armadio di futilità. Tutto tracima ovunque: anche le case sono iperarredate, sempre più simili ai negozi da cui provengono tutti i ninnoli di cui straripano: oggettini, quadretti, ceramiche, legni scolpiti, lampade, vasi e cocci, piatti e giare, fiori e candele candele candele, libri illustrati mai aperti, oggetti etnici per gente che al massimo ha fatto 3 ore di aereo da casa; decorazioni disposte nelle stanze più o meno come le hanno viste sui giornali, come le hanno trovate nelle vetrine. Horror vacui.
La padrona di questa casa è una donna buona e sentimentale che predilige il mistico un po’ new age con scritte sull’amore universale e lezioni di autostima in ogni formato: massime di vita buone per tutti in ogni occasione, parole confettose e rassicuranti come il suo cane coccolo e mieloso anche nel colore del pelo, come il suo shopping compulsivo che gonfia la casa, la ingolfa. È per questo che qualche mese fa ha deciso di provare a rivendere un po’ di vestiario, mettere insieme il superfluo, il futile, il passato di moda, il perso di appetito, e ha invitato un po’ di amiche e vicine di casa a comprare la sua roba. È stato un successo tale da provocare un paradosso: ha cominciato a andare a comprare altri capi, a fare giri di svendite, ultrasaldi, e ne ha fatto un lavoro; ogni due mesi mirtilli e formaggi, diet cola e vino italiano per attrarre nuove clienti nella sua casa collassata, altre casalinghe bramose di comprare futile e inutile a prezzi stracciati, eccitate come bimbe al giro gratis del luna park: il capitalismo divora se stesso. E trecento chilometri a sud il confine con il Messico, con la gente che pur di entrare negli Stati Uniti a lambire questo sfarzo si gioca la vita. Un tempo agli americani piaceva passare Tijuana e farsi un giro, ma ora non ci vanno più: troppi gli episodi di rapina e violenza dall’altra parte della frontiera.
E io che guardo questa inutile stucchevole opulenza pensando alla semplicità della mia casa, agli oggetti comprati nei miei viaggi, mi rendo conto che cambia poco, ché ciò che possiedo è opulento comunque, per le moltitudini al di là del confine largo come tutto il mare che ci separa dall’Africa.