Ho la sensazione e il timore che le bambine occidentali siano attualmente compresse da due modelli opposti, quello “principessa rosa” e quello “maschiaccio”, che in entrambi i casi servono (= “sono servi”) della magnificazione di un modello sociale patriarcale.
Non credendo all’esistenza di un DNA “caratteriale”, ritengo che ciò che siamo sia il prodotto degli stimoli che riceviamo da nostra nascita. Impulsi neuronali che ci arrivano da chi ci circonda e che in modo soprattutto non verbale e non consapevole ci dà un ritorno su cosa facciamo − e quindi su chi siamo – modellandoci: feedback di piacere, dispiacere, approvazione, disapprovazione, amore, odio, paura, permesso eccetera. In questo senso penso che crescere un figlio pensando di poterne “assecondare il carattere” sia molto utopico: i nostri figli sono nel bene e nel male il prodotto di ciò che siamo, quindi anche delle nostre paure, debolezze, indifferenze, egoismi. Ogni figlio che cresciamo è (soprattutto nella fase cruciale della sua formazione psichica, cioè i primissimi anni di vita), frutto di un continuo flusso di informazioni emozionali che lo avvisano se quello che sta facendo va bene o meno, a cui il bambino cerca di uniformarsi per garantirsi la continuazione dell’amore nei suoi confronti − oppure a opporvisi, per altre ragioni di sopravvivenza.
Oltre che dal nostro ritorno emotivo, l’orientamento e i comportamenti di un bambino derivano però in parte anche dalla sua corporeità, che conserva nel DNA tutte quelle informazioni/istinti che abbiamo programmati in noi e che ci rendono atti alla sopravvivenza come specie, ovvero i comportamenti necessari alla nostra riproduzione.
Pensare alla nostra corporeità significa prendere atto che esiste un sistema ormonale molto diverso per uomo e donna, utile a soddisfare i bisogni primari della specie homo sapiens. Il modo in cui viene agita questa diversità in tempi recenti mi pare neghi la forza intrinseca del comportamento femminile rispetto a quello maschile, di fatto svalutandolo. In altre parole, io credo che il sistema patriarcale abbia portato la donna a sentire che per avere un suo spazio di potere che non fosse solo quello domestico, lei dovesse qualificare la sua forza attraverso degli stereotipi patriarcali, ovvero legandola a un’equazione “forza = vigore fisico/durezza”, entrando in competizione su una scala di valori mascolini. Come se gli aspetti femminili legati alle funzioni della maternità (dono di sé, sensibilità, protezione, accudimento, accettazione, tolleranza, tenerezza eccetera) fossero “deboli” esattamente quanto il modello patriarcale tradizionalmente li qualifica, e inadatti per una vita extradomestica − lavoro, politica, leadership ecc.
Pare un’ovvietà questo ragionamento, ma torno all’inizio di questo post: nella declinazione del genere femminile, madri e padri sono ancora inchiodati al modello principessa rosa/futuro-angelo-del-focolare, che sostengono implicitamente nelle figlie attraverso i feedback neuronali positivi di cui sopra, al punto che per uscire da questo recinto le donne sono costrette ad assumere modelli maschili dell’età della pietra. Penso con grande preoccupazione all’apprezzamento anche da parte “femminista” di figure/icone mascolinizzate, il cui esempio più clamoroso è forse nella serie televisiva Trono di spade, dove le donne che non sono “puttane” (null’altro che una delle possibili declinazioni del modello “principessa rosa”), sono spesso nient’altro che esseri assetati di vendetta e di sangue, insensibili e pieni di odio, sessualmente improbabili, fisicamente vigorosi e possenti eccetera.
Credo che il fulcro della questione sia proprio qui, nel concetto di forza. Finché come donne misuriamo la nostra potenza su una scala di valore mascolino, abbiamo straperso. Il nostro potere non viene dal rinunciare ai nostri aspetti profondi a favore di uno scimmiottamento di atteggiamenti “duri”, ma nel darci la possibilità di avere qualsiasi ruolo nella vita filtrandolo attraverso la nostra ricchezza. Vivere in Svezia, dove una politica di genere esiste realmente e da tempo, fa capire quanto sia possibile essere madri, scienziate, musiciste, ancora madri e dirigenti d’azienda, registe, autiste, avvocatesse, architette, ancora madri e ministre, insegnanti, ingegnere, atlete, cameriere, scrittici, e ancora madri, madri e madri, facendolo da donne: risolvendo i conflitti, le questioni sociali, le valutazioni aziendali, scegliendo uno stile, trovando soluzioni da donne, ovvero trovando nella propria inclinazione un modo di agire personale e diverso, che (meraviglia!) si confronta con un modo “maschile”, da cui si possono elaborare su un piano paritetico le strategie migliori.
Sarebbe bello se le bambine fossero libere di giocare con le bambole oppure con le macchinine senza approvazioni o disapprovazioni in alcun senso, e che ognuna potesse sapere che qualsiasi sia il modo in cui esprime se stessa, le è consentito farlo. Che voglia essere principessa o campionessa di kick boxing, ma soprattutto, potendo essere entrambe le cose.
Foto di Mikael Moiner