Quasi trenta anni fa abitavo a Stoccolma, nell’elegante quartiere di Gärdet, sposata a uno svedese. Al tempo lavoravo in Alitalia e mi sentivo molto al sicuro, forte di un ottimo lavoro, una bella laurea con 110 e lode in tasca, l’appartamento di proprietà. Mi sentivo perfettamente integrata nella società svedese, parlavo la lingua come fosse il mio idioma nativo e avevo amici svedesi DOC, in prevalenza biondi con gli occhi chiari.
Poi un giorno tornando a casa trovai un gran caos di polizia all’uscita della mia stazione della metropolitana. Entrata in casa guardai il notiziario per scoprire che qualcuno aveva sparato a un uomo, proprio lì, a due passi da casa mia. Un fulmine a ciel sereno, uno scarafaggio sulla torta perfetta della mia sicurissima esistenza borghese nella placida Stoccolma. Quale poteva essere il movente? Incomprensibile. La vittima era incensurata: uno studente di antropologia, di origine straniera. Si salvò per pochissimo, e l’unica cosa che poté dichiarare sull’accaduto fu che aveva visto il puntino rosso di un laser sui suoi vestiti, un attimo prima dello sparo.
Era il 3 agosto 1991 e quella fu la prima vittima di John Ausonius, nato con il nome di Wolfgang Alexander Zaugg (in Svezia è consentito cambiare nome), da tutti meglio conosciuto come lasermannen (in italiano l’uomo laser). A sua volta immigrato, figlio di padre svizzero (che lo teneva a distanza) e madre tedesca (che lo maltrattava) che si separarono prestissimo. Nonostante avesse buoni risultati scolastici, veniva bullizzato dai compagni perché scuro di capelli.
Sparò ad altre dieci persone dopo quella, causando in molte di loro danni gravi e irreversibili, e uccidendone una. Tutte le vittime avevano in comune i capelli e/o la pelle scura. E in quei mesi segnava l’ascesa un partito, “Ny demokrati”, che aveva come tema principale del suo programma l’odio verso gli immigrati, rei di attentare alla sicurezza e al benessere economico degli svedesi “puri”.
Come lo squarcio sulla tela di un Fontana, dopo quel 3 agosto passai alcuni mesi con una sottile paranoia. “Sapevo” che l’uomo laser difficilmente sarebbe tornato proprio lì, vicino a casa mia, ma del resto aveva sparato da posti diversi in tutta la città, avrebbe potuto scegliere me ovunque: in una via del centro dove lavoravo, fuori da un ristorante, mentre passeggiavo in un parco. All’improvviso, io non avevo più niente che mi assimilasse al paese dove vivevo. Non valeva la mia laurea, il mio lavoro, l’appartamento di proprietà, la lingua impeccabile, gli amici biondi. Nulla di questo mi forniva un passaporto immunitario: contavano solo i miei capelli castani e ricci, il mio naso calabrese e i miei occhi nocciola. Ero diventata un guscio senza contenuto, un bersaglio mobile.
Vorrei che chi è razzista si ricordasse di essere solo un privilegiato senza alcun merito, nato nel posto giusto per caso, con a sua disposizione un orgoglio da miserabile; e che basterebbe pochissimo (uno squilibrato sociopatico) a ridurlo a una poltiglia sul marciapiede di una strada, in un posto diverso dalla propria città e dal proprio Paese, anche se facesse tutto “giusto”. Non basterebbe per un killer malato di odio che – come è evidente – vuole in verità solo annientare sé stesso. Dico questo ai razzisti che hanno ferito Daisy.
E una cosa a tutti i genitori: amate i vostri bambini. Solo il vostro amore può migliorare questo mondo. E se non siete sicuri di poter amare veramente i vostri figli, non metteteli al mondo.