Joyce Carol Oates: la spietatezza della narrazione come unico risarcimento alla crudeltà.

Un nuovo pezzo (finalmente!) per La poesia e lo spirito dopo il lungo silenzio imposto dalla scrittura del romanzo, dedicato a J. C. Oates, che credo sia insieme a Toni Morrison la mia scrittrice preferita.

Non si è smentita J. C. Oates: al Festival Letterature di Roma 2010 ha letto un pezzo (il primo capitolo del suo nuovo romanzo in corso di scrittura) che celebra il filo rosso della sua durissima, splendida narrazione. Settantadue anni ben portati e ben vissuti, con decine di romanzi pubblicati negli Stati Uniti e tradotti in quasi ogni lingua, centinaia di racconti, e poi ancora saggi (molti sulla boxe), poesie, pièce teatrali, sceneggiature. Prolifica e grande artigiana della scrittura, la sua visione del mondo è sempre dalla parte dei deboli, a cominciare dalle donne. Non si fa incantare dalle supposte conquiste della donna occidentale e continua a procedere spedita nel denunciare abusi e soprusi vissuti ogni giorno, con un occhio femminile e femminista sul mondo, implacabile nel fotografare la società statunitense per quella che è.
Uno dei suoi romanzi più famosi, “Blonde”, biografia romanzata di Marylin Monroe che sta per diventare un film interpretato da Naomi Watts, è abbastanza paradigmatico del suo lavoro: la bellezza manipolata, lo sfruttamento della debolezza, il senso di falso potere della donna bella che non si sa amare e per questo diventa schiava dell’uomo, disposta anche a fingersi stupida pur di piacere. Sono passati quasi cinquant’anni dalla morte dell’attrice ma le cose non sono cambiate molto: le donne occidentali continuano a essere schiave degli stessi fantasmi, vittime delle stesse crudeltà, anche quelle tra donna e donna.
È la crudeltà in ogni sua declinazione – sopruso, violenza, abuso, intimidazione, stupro, incesto, indifferenza, spietatezza – l’alfabeto narrativo di questa autrice, che nel scegliere con chirurgica precisione ogni vocabolo ne sovverte spesso la valenza aggiungendo perturbanza ai lemmi comuni e casualità a quelli più ricercati, straniandoli. Spiazza, commuove, scuote, ma dando la sensazione che non voglia veder scendere una lacrima, che non la voglia concedere. Perché la commozione è passeggera e serve solo a sciacquarsi la coscienza: è lo sdegno, la rivoluzione viscerale l’unica strada del cambiamento. Schiaffi in faccia per farci capire, vedere la realtà, darle forza materica, pathos scolpito, indimenticabile. Vietato piangere: la Oates risarcisce le vittime della crudeltà tatuandocela addosso, cercando di impedirci di voltare la faccia; ci chiede consapevoli, ci chiede di guardare la realtà e chiamare le cose con i loro nomi. Nuda Veritas per farci infilare un bastone nell’ingranaggio della nostra coscienza e prendere atto di tutto il sopruso che ogni giorno ci scorre sotto gli occhi nelle occidentali immagini del nostro mondo che fingiamo risolto per convenzione, per abitudine allo squallore, al dolore, per semplicità. Ma nulla è semplice, siamo noi a ridurlo tale per comodità, per non togliere energia al nostro piccolo, minuscolo quotidiano.
Troppi romanzi di successo, troppa prolificità, troppa insistenza su temi scomodi e amore da parte del suo pubblico le hanno fatto vincere pochi premi, ingiustamente. Ma il suo modo di raccontare la violenza, così simile alla meritatissima premio Nobel Toni Morrison, è qualcosa che durerà nel tempo e lascerà, speriamo, un segno in noi, aiutandoci a cambiare lo stato delle cose presenti.