In questo periodo ho chiuso un cortometraggio e sto finendo di montare un documentario: ciò si traduce in 12-14 ore al giorno di lavoro festivi compresi: realisticamente, non riuscirò mai a trovare il tempo per scrivere una delle mie ragionate recensioni sul suo ultimo splendido film. A malincuore, perché so già che anche qui avrei bisogno di toccare mille aspetti, dagli impianti mitologici antichi e la tragedia greca con i suoi archetipi, fino alla tradizione recente della fiaba, per concludere con le religioni: non solo il panteismo olimpico e la ybris umana dell’imitarlo, ma le molte declinazioni dei Sette Vizi Capitali.
Tuttavia quello che mi ha colpito di più è stato quanto il film parlasse del mondo moderno: questo è stato l’aggancio più forte a livello emotivo per me. Al contrario de “La grande bellezza” infatti, che pur nella grandezza registica di Sorrentino mi aveva consegnato una realtà fittizia ed estranea, banale e lontana dal mio sentire e dal mio vedere, nel mondo di fantasia di Matteo Garrone ho trovato tutto ciò che mi circonda: ogni aspetto più tragico e deleterio della nostra mostruosa realtà. Nel racconto della Regina la narrazione edipica nasce soprattutto come questione narcisistica: la donna che compie violenza pur di generare un uguale di sé, un suo capolavoro, un doppio di se stessa, e in questo senso tocca un tema difficile come quello della fecondazione artificiale, portato nel mondo attuale a estremi di coercizione generativa, forzatura oltre i limiti dell’età procreativa. Un tema spinoso, giocato qui per allusioni, modernissimo, e dove Edipo dà un valore finale molto più ricco di pathos e amore alla sua storia di distacco dalla madre.
Si resta sul tema dell’incapacità di accettare la propria finitezza nel racconto delle Due Vecchie, dove se ne declinano entrambi gli aspetti: quello maschile dell’uomo maturo-minotauro che ciba la sua ansia di morte nutrendosi cannibalisticamente della bellezza della carne di giovani donne, e quello della donna che non accetta il proprio invecchiamento, ed è disposta −come la Regina− a sottoporsi a tormenti chirurgici pur di dare agli altri e a se stessa l’illusione di essere ancora giovane, con la disperazione di uno sfinito Dorian Gray.
Ma la linea narrativa de La Pulce (ambientata nella cornice strepitosa di Castel del Monte) è quella che mi ha più toccata, scossa, commossa. Si parla di ginecidio, e lo si fa nel modo più sottile, utile, anticonformista e femminista possibile. Un tema su cui si sente di rado una voce maschile così intelligente, profonda, onesta, e quindi preziosa. Giocare con i temi che mi hanno reso intollerabile Game of Thrones, e saper dire tutto ciò che è giusto, necessario e nobile a proposito. Per questo sento un grande debito di gratitudine con Garrone, e dico: finalmente.
E mi prendo ancora davvero solo un minuto per dire del filmico, che è eccellente. Una fotografia ricca di idee che mai si mette in mostra, piani sequenza impercettibili, come quelli che sa realizzare Michael Mann, inquadrature sempre giustificate dalla narrazione, mai fini a se stesse, effetti speciali equilibrati, giustificati anch’essi dal fantastico narrato, e attori strepitosi (tolta per me la Hayek, che ho trovato “americana” e debole) anche nelle parti minuscole, che sembrano tutti dei camei. Mi si conceda di nominare Guenda Goria, con cui ho avuto il piacere di lavorare, ma potrei citarne moltissimi altri, come la strega nel bosco, il negromante, il funambolo, e così via. E poi scenografie, costumi e trucco da premiare, e una colonna sonora perfetta, persistente ma impercettibile.
Questo non è un film per tutti. Richiede capacità di abbandono, ingenuità e saggezza, profondità e stupore, ma non di qualsiasi tipo: del tipo che serve per amare questo film, per sentirlo dentro. Non lo consiglierei a tutti, come non suggerisco a chiunque di visitare l'isola di Pasqua. Bisogna avere un certo tipo di anima. Non “migliore”, assolutamente, semplicemente, quel tipo.