C’è bisogno di coraggio per vedere questo film, ma è necessario trovarlo.
Pensavo di sapere quasi tutto sul G8 di Genova del 2001, ma invece no: non abbastanza. Perché sapere non è vedere. Non sapevo o non contenevo tutto questo dolore, questo sangue, questo abuso, questa crudeltà, questa disumanità, questa carne che implora inutilmente pietà a quella follia aguzzina che sa come violentare senza arrivare a uccidere, per non essere incriminata; follia che è (dentro) il nostro Stato.
Più che mai: i colpevoli della Diaz e di Bolzaneto non solo non sono stati sospesi dal servizio ma sono stati per lo più promossi. E sono ancora tra noi, per strada, con una divisa addosso, con il tricolore cucito sulla giubba. Per difenderci.
Sì, questa recensione non è asettica ma di parte, perché il film lo merita, anzi: lo reclama, lo esige. Perché se esci dal cinema senza sentirti le ossa incrinate, i muscoli pesti, gli occhi gonfi, la mente confusa e intontita allora Vicari ha fallito. Ma non fallisce, perché in sala all’accensione delle luci c’è solo silenzio livido, musi di gesso e mani tremanti a cercare i giubbotti.
Ma il cinema non è solo contenuti e alla fine quel che conta veramente, come diceva Kieslowski, è dove metti la macchina da presa. Quindi diciamolo senza esitazioni: questa è una pellicola che ha davvero la bellezza di un grande film. Inquadrature e movimenti di macchina perfetti, necessari, inosservabili, asciutti, con un grande Gherardo Gossi alla fotografia; sceneggiatura senza sbavature, flashback e flashforward che tessono suspense, effetti visivi misurati e naturali, che danno quel senso di realtà quasi fisica e olfattiva che permette di calarsi nella situazione come in un documentario, con tutti i pregi di un documentario; un montaggio preciso e teso, sottolineato dalla musica asciutta e efficace di Theo Teardo.
In conclusione, pur rispettando alcuni passaggi della critica scritta da Agnoletto sul Manifesto, è ingeneroso soffermarsi sulle supposte omissioni di questa pellicola: che un film del genere sia stato prodotto in Italia (e senza i soldi di Rai e Mediaset) e spinto così tanto nelle sale è già un miracolo. Lasciamo che il dibattito prosegua altrove, l’importante è che sia ricominciato dopo anni troppo silenziosi, senza neanche una commissione di inchiesta. E soprattutto lasciamo che sia il pubblico a dire la sua, a cominciare dalla vittoria ex aequo del Premio del pubblico all’ultimo Festival di Berlino, dove il film era presentato fuori concorso.