La rete si è abbastanza divisa su Bertolucci. La maggior parte delle persone sono in lutto e non lesinano epiteti molto altisonanti nei confronti del regista, altri lo criticano per quanto successo sul set di “Ultimo Tango a Parigi”, in quella che viene da tutti denominata la “scena del burro”. Ci sono versioni diverse sull’accaduto, dal negazionismo più assoluto (“era una zoccoletta che se l’è andata a cercare, l’hanno pagata, sapeva la scena” e via vomitando) a quelli che “è stato quel burlone di Brando, Bertolucci è innocente!” e via scemando. Sulla questione precipua, non c’è molto da congetturare dato che lo stesso Bertolucci si è espresso chiaramente in proposito. In primo luogo, ammettendo l’accaduto e motivandolo con una giustificazione artistica: voleva che l’attrice mostrasse emozioni reali e non recitasse, perché il tutto fosse più forte (lo stesso principio degli snuff movies). In secondo luogo dichiarando in tempi più recenti che era “dispiaciuto” di non aver chiesto scusa a Maria Schneider per l’accaduto, prima che lei morisse.
Bertolucci ammette la sua colpa, fornendo un alibi artistico: che poteva fare? Ormai era andata così. Per molte persone, questo è sufficiente a tenere del tutto da parte la questione e consumare pacchi famiglia di fazzolettini da naso sulla sua morte.
Un “no” è un “no” e la scena non vale
Ci sono due aspetti a monte di questa questione che vengono tralasciati ma che dovrebbero essere i cardini rivelatori della faccenda. Il primo è che Maria Schneider era una ragazzina di 19 anni che voleva fare l’attrice. Gli attori sono come ben sappiamo persone molto fragili che vivono per una sola cosa: essere amati e acclamati da un pubblico. Il loro bisogno di attenzione e conferme li mette in una posizione di ricattabilità totale. E nonostante questo, Maria si è opposta sul set a quella scena, ma il suo “no” non è valso come tale. Anche fosse stata d'accordo prima (quando ha letto la sceneggiatura) ecco che una volta lì si spaventa, si vergogna, è orripilata. E che succede? Che la scena la girano lo stesso. Con lo stesso principio patriarcale per cui una donna che è all’inizio consenziente a un approccio maschile, è poi “obbligata” a non tirarsi più indietro, anche se magari quel ragazzo non le piace più, magari è troppo sbrigativo o brutale, o magari ha semplicemente un alito impossibile.
Il secondo aspetto a monte della questione è che una volta girata la scena, una volta visto l’enorme disagio della Schneider, la sua ferita, il suo rancore, il suo dolore, Bertolucci avrebbe dovuto fare l’unica scelta possibile: non montare quella scena nel film. Qualunque cosa fosse successa prima, quella scena mostra un dolore profondo e vero (quello che lui VOLEVA ottenere, per sua stessa ammissione, in effetti) e lui ha scelto di montarla ugualmente. E avrebbe potuto fare ammenda dopo, fino a due giorni fa, e dire: ritirate tutte le copie del film, tagliamo quella scena, mi pento e mi vergogno. Ma no. La scena resta, il satrapo era contento così.
L’intoccabilità del Genio
Sì, Bertolucci era un regista coi fiocchi e ha reso al cinema momenti indimenticabili. Su questo, lo dico anche io (nel mio piccolissimo come regista), non ci piove.
Per quasi tutti, è fondamentale scindere l’essere umano dall’artista, anzi, l’Artista. Perché l’Artista è Genio, ed è sopra a tutti, persino a sé stesso. La teoria è che il politically correct sia assai noioso, figuriamoci poi i moralisti (?) che vanno a rinfacciare piccoli vizi quasi di forma. La verità è che il problema è insito nel fatto che tutti dichiarano che questo passaporto di impunità etica (non morale, ché quella è una faccenda personale e culturale) lo accorderebbero a chiunque, ma non è vero affatto. Anche le persone meno disposte a dare un peso a un contenuto ideologico non sarebbero al 100% disposti a riconoscere il valore di un artista che andasse a toccare un loro tabù personale, qualcosa che li ha toccati nel profondo. Facile fregarsene di Maria Schneider, ma vagli a toccare la loro identità, quella di una persona cara, o la squadra di calcio del cuore, e improvvisamente ci sarà un muro totale: indignazione, fine della tolleranza e della liceità garantita per l’Artista. È una questione di empatia umana, non di principio.
“E allora Caravaggio??1?1”
Molte persone durante queste discussioni tirano fuori altri esempi di artisti “esecrabili”, il più citato è sempre Caravaggio. Come se fosse possibile paragonare un uomo vissuto secoli addietro con qualcuno che operi oggi nella nostra cultura. Qualcuno che oggi lucra sulla propria creazione artistica, che vive di royalties, di vendite, di distribuzione dei suoi contenuti. Se noi oggi, nel 2018, alimentiamo un certo tipo di produzione artistica rendendola economicamente fruttuosa per chi la fa, ci rendiamo attivamente complici e siamo parte di un percorso di sdoganamento della visione del mondo di quella persona, e abbiamo un peso sociale e culturale. In altre parole, se un rapper scrive testi misogini e io ascolto la sua musica, gli sto dicendo che quello che fa va bene, sto dando ad altri un modello da seguire per il successo, sto accettando che si arricchisca. Diverso è un artista storicizzato e acquisito, fermo restando che deve essere ben evidente e dichiarato cosa quella persona ha compiuto al di fuori della sua opera artistica, perché è sua responsabilità. A ciascuno poi il piacere o meno di godere della sua opera. Fatta eccezione per quelle opere dove è stata esercitata una forma di abuso su chi ne è stato parte (come per il film in questione), non auspico però la censura, ché altrimenti si rafforzerebbe quel senso infantile di “perseguitati” da parte di chi rivendica un approccio permissivista all’arte.