Grazie a Gaja Cenciarelli è appena uscito su “La poesia e lo spirito” un mio lungo racconto, molto importante per me. Grazie a mia sorella Gaja e a chi lo leggerà, è davvero lungo oltre che sentimentale ;o)
Eccolo qui:
Una lunga storia quasi d’amore
Molte le ragioni per cui oggi racconto questa storia.
Ragioni ricostruttive di me, dei miei ultimi 19 anni di vita, in giorni in cui mi sono consegnata a un uomo portandogli in dono una brugola. Due giorni tanto per smontare qualche pezzo, tornata a casa in una scatola come un puzzle di cui ci si stufa. Dopo anni di relazioni stabili mi riaffaccio al mondo come al finestrino di un treno tirato giù d’estate, e prendo in faccia il vento nero pauroso di una galleria. Indifesa. Starò più attenta, spero. Spero che torni, con la brugola. Lo aspetto.
Ma non è di lui che devo raccontare. Devo raccontare una vecchia storia che alcune mie amiche mi hanno chiesto di scrivere, dopo che gliel’ho narrata a voce. Una storia cominciata il 14 settembre del 1990, giorno più giorno meno.
Vivevo a Stoccolma da qualche mese con il mio compagno svedese, quello che poi è diventato il mio primo marito. Vivevamo in un piccolo appartamento per studenti uguale a un depliant dell’Ikea, eravamo felici. Il sesso a dire il vero non aveva mai funzionato granché, ma non ci facevo caso perché era un amore a cui volevo mettere la A maiuscola. Volevo Mr. Right. E lui aveva spalle larghe da tennista e piedi solidi, un ingegnere di telefonia mobile con cui potevi fare progetti di vita già vedendoti dentro a una Volvo familiare – che ha poi in effetti anche avuto, anni dopo. Dopo di me. Un uomo solido, niente grilli per la testa. Pensavo fosse Amore e invece a quei tempi cercavo solo un Tavor.
Ma il 14 settembre questo ancora non lo sapevo. Ero un proiettile nel suo mondo, mi adattavo per vincere, come sempre. Mi adattavo e alla fine quindi perdevo, tutto; soprattutto l’amore.
Il 14 settembre una mia amica, Yvonne, mi invita a cena a casa sua. Lo svedese è a Ivrea a lavorare per Omnitel, sono sola a casa, sono anche un po’ pigra ma lei mi dice che ci sarà sua sorella, con due amici americani, e quell’altra sua amica, Anna, che vuole presentarmi da un sacco di tempo. Tutto sommato, vado.
Entro nel suo appartamento, sulla destra la cucina. C’è un ragazzo appoggiato contro lo sportello largo del frigo; ha una mano nella tasca dei suoi pantaloni beige, e sopra indossa una camicia a piccoli quadretti come andavano sul finire degli anni ottanta. Con l’altra tiene un calice di vino. Ci stringiamo la mano. Si chiama Sami. Ha una bella voce, ma non ci faccio molto caso.
Ceniamo. L’amica di Yvonne, Anna, è competitiva e egocentrica, bestie che avevo già abbastanza sgominato, nel 1990, ma che svegliate dai suoi latrati riabbaiano assetate di sangue. Divento insopportabile. Più sguaiata degli ospiti americani, più invadente di una caricatura di italiana, rido troppo forte e faccio battute taglienti fottendomene di quanto lacerino, fendenti sciabolate a casaccio, tanto per cercare di strappare dagli artigli di Anna la corona di reginetta della serata. Ce la contendiamo cattive e manesche, fingendo di starci totalmente simpatiche, finché la serata finisce. Già mentre scendo gli ultimi gradini di casa di Yvonne mi sale sul viso un senso di incontenibile vergogna: ma come cazzo mi sono comportata? Ma come mi è venuto in mente di fare quel lurido teatro imbecille che non avrei dovuto fare neanche a 15 anni, figuriamoci a 26? Yvonne non mi vorrà vedere mai più. Pazienza per gli altri, per quella stronzetta di Anna, ma Yvonne non mi chiamerà più.
Invece mi chiama, il giorno dopo… mi dice che quel ragazzo americano, Sami, le ha chiesto se per caso poteva avere il mio numero, per chiamarmi. Il mio numero? Non mi capacito, penso ancora alla figura di merda che ho fatto, che devo per forza avere fatto quella prima sera che ci siamo conosciuti. Però le dico certo sì, incredula. Come ho fatto a piacergli con quel nonostante cubitale? La sera dopo squilla il telefono, rispondo, una voce si prende una pausa e poi dice “Hi!”. Rispondo in italiano, dico “Ciao!” e lui “Don’t hang up on me, please!” pensa che ‘ciao’ sia solo per accomiatarsi, come è percepito in inglese, e quindi crede che gli stia attaccando il telefono in faccia. Gli spiego ridendo, e poi un diluvio di parole, per qualche ora.
Sami è americano ma ci è arrivato da bambino in Florida. Sua madre è danese, suo padre iraniano. Li ho visti finalmente in foto due mesi fa i suoi genitori, dopo essermeli immaginati a vuoto per anni. Lui è un elegante signore con un’inspiegabile somiglianza al mio: potrebbero essere cugini; la madre è una splendida scandinava castana, di quelle che dimostrano sempre 15 anni di meno. Il padre è andato via ai tempi di Reza Pahlavi, era a studiare in Germania, dove si sono conosciuti. Hanno vissuto un po’ in giro per l’Europa prima di andare negli Stati Uniti. Anche in Italia. Per sei mesi. In una città del nord. A Monza, per la precisione. Proprio lì, fra tutti gli 8.101 comuni d’Italia che c’erano a disposizione.
Sami e io parliamo a manetta. Lui è nella casa di campagna di Yvonne, io a casa mia a Stoccolma. La visiterò molti anni dopo quella villetta, sarà come il giro turistico di un reliquiario: questo è il letto dove dormiva Sami (ci dormirò anche io), e questo è il telefono da cui mi chiamò per quella prima telefonata, quel telefono verdino uguale a milioni che la sua mano di cui non ricordo l’aspetto ha stretto mentre rideva con me. Questa è la sala da pranzo dove hanno mangiato. Chissà se c’è rimasto un suo pelo incastrato tra due assi di legno del pavimento. Se bevo da tutti i bicchieri della casa avrò bevuto sicuramente anche dal suo. Per non dare nell’occhio mi limito a prenderli in mano uno ad uno, un momento in cui Yvonne è fuori in giardino.
Ma siamo ancora nel 1990, al telefono, e dopo tante ore di chiacchiere arriva la voce calda, bellissima di Sami a dirmi ciò che sapevamo entrambi “I would like to see you again”. Avrei potuto rispondere subito “certo” ma invece aspetto, una pausa che so lo farà innervosire un po’, ma che assaporo come il più libidinoso dei cioccolati. Gli faccio sentire lo sbuffo di un sorriso, mi arriva il suo. Solo allora gli dico “I’d love that, too”.
Ci rivediamo due giorni dopo. Vado a prenderlo a casa di Yvonne con in testa un cappellino delizioso che mi da un look da cinema, e lui è colpito. Andiamo da me, prendiamo delle pizze orrende e ce le mangiamo, in fretta. Poi ci sediamo sul divano della camera, a chiacchierare. Ci sfioriamo la pelle, mentre parliamo. Il letto è lì a due falcate, ci si potrebbe quasi tuffare dal divano. Ma non ci tuffiamo. Ci stiamo dicendo cose belle. Mi piace che quando è imbarazzato con uno scatto laterale della testa si scosta la frangia dagli occhi. Ha una splendida lunga chioma castana Sami. Ce l’ha anche oggi, l’ho vista in foto; manco un filo bianco. Capelli che è bello tenere tra le mani. Lo riaccompagno a casa, poi. E da lì lui vorrebbe riaccompagnare me: potremmo fare avanti e indietro tutta la notte, una notte ancora misteriosamente tiepida per un settembre stoccolmita. Ma so che devo tagliare, chiudere in un abbraccio goffo e frettoloso una serata, una nottata che va recisa così, con un colpo secco. Ci parliamo ancora al telefono, poi lui parte, va dai suoi nonni in Danimarca. Mi chiama ancora da lì, non sa se cucire o scucire le sue parole. Io sono sorridente ma non do appigli. Convivo, con un uomo. Non sono una che si fa la scopata, men che meno per le corna: o amore o bianco candeggina. È un po’ deluso Sami, scalpita. Qualche giorno dopo torna nel Connecticut, si deve trasferire a San Francisco per lavoro. È un radiologo interventista, va a specializzarsi come chirurgo endoscopico. Come in un film, noleggia un trailer e si mette guidare coast to coast, attraverso campagne, deserti, rocce. E nel frattempo mi scrive delle lettere dove accarezza uno per uno ogni dettaglio di noi, il mio buffo cappellino, quello che gli ho detto sulla sua pelle, il mio seno, il letto (“an impossible leap away”), le parole che ci siamo detti, e tutta la strada che percorre: il Painted Desert, i colori delle Montagne Rocciose, la striscia dell’asfalto, e il momento del motel, quando sono sempre il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi.
Non gli ho chiesto un numero di telefono, non so dove contattarlo. Sono sciocca. Le emozioni che ho vissuto con lui mi arrivano in differita, incredule. Le leggo nelle sue lettere, mi si depositano nella pancia, ingoiate con un singhiozzo. Cerco di trovare il suo numero ma non sono sicura su come si scriva il suo cognome. Dopo serate passate a parlare col servizio informazioni internazionali rinuncio e chiedo a Yvonne se puoi darmi un suo contatto tramite la sorella. Ci vuole un mese, c’è solo la posta di carta, ma finalmente ho il numero dei genitori: chiamo. Parlo col padre, mi da il numero di Sami, parliamo una volta poi basta. Ritiro indietro la testa come una tartaruga, torno nel guscio Ikea con il mio Tavor.
Poi è novembre, un anno dopo, a un orario troppo presto la mattina. Squilla il telefono nella mia casa nuova, il mio numero non è cambiato. Sollevo io la cornetta. “Hi Monica, this is Sami”. Senso di vertigine, e imbarazzo. Il mio compagno discretamente mi lascia sola e va a farsi una doccia, mentre io cerco di avere una conversazione con lui. Ha una voce dolorosa, intensa, incerta. Più scura del solito. Quale ‘solito’? Quel minuscolo solito che abbiamo avuto, che sembra quasi assurdo dire, reclamare per noi. Ci siamo visti due volte e basta. Per ricordarmi il suo viso devo vedere una foto che mi ha messo in una lettera. Pian piano la faccia della foto diventa la sua vera faccia, mentre io ho dimenticato quella che ho visto dal vivo.
Ma ora è al telefono con questa voce dolente, capisco il perché: mi sta dicendo che ha preso un biglietto per Copenhagen, per Natale. Andrà dai suoi nonni, ci starà dieci giorni. Mi aspetterà lì, per dieci giorni. Tocca a me scegliere se andare. Posso andare, per favore? Ha comprato il biglietto, vado? Mi aspetterà, ecco l’indirizzo e il numero di telefono, se voglio andare.
Non lo trovo strano. Niente è strano, anche un anno dopo, anche il biglietto, il Natale, i nonni, la telefonata e il mio uomo sotto la doccia a cui dico con tono casuale che era quel ragazzo americano, amico di Yvonne.. viene in Danimarca, dice se ho voglia di andarlo a trovare, fargli un saluto. Non fa una piega il mio uomo. È svedese. Pensa che se ho voglia di andare, perché no? È la risposta giusta. Mi tormento un po’ le unghie, e alla fine gli scrivo a Sami. Gli scrivo che non posso andare, che mi sembrerebbe sbagliato nei confronti del mio compagno, ma che lui è davvero speciale per me, che lo ringrazio, che mi ha dato cose importanti. Ma spedisco la lettera troppo tardi, e quattro giorni dopo il servizio postale svedese me la fa ritrovare nella cassetta: destinatario assente. Altre unghie, ma è andata così. Che fare?
Ci trasferiamo in Italia. È il 1992. Ogni tanto rileggo le lettere di Sami, le tengo un po’ nascoste. Contenta di essere tornata a vivere a Roma, ma la noia di coppia inizia a prendere il sopravvento. Quindi decidiamo di sposarci, io e Tavor. Mi ingozzo di preparativi, festa nuziale e coordinamento degli ospiti che arrivano da tutto il mondo, ogni cosa un piccolo gioco: la bomboniera, la scarpa verde, poi bianca, poi il menu, poi il bus a noleggio.. sei mesi solo a organizzare un evento come fosse un congresso internazionale, e lo sgomento la mattina di capire che sono io che mi sposo. Che non è un evento, ma Il Mio Matrimonio.
Ma soprattutto, quando scappiamo dalla festa prima che finisca, con l’aereo per Parigi e poi Los Angeles che ci aspetta, tutta quella tensione di non aver capito nulla, non aver capito a chi toccava. L’attacco di colite nel metrò di Parigi, andando in hotel dall’aeroporto: chiusa nel bagno di servizio dei custodi che hanno visto la mia faccia verde e si sono impietositi. L’intestino come un groviglio di serpi intorcinate e l’imbarazzo della prima notte in cui devo essere la donna più felice della terra ma soprattutto la più romantica, e invece mi è calata una cappa di depressione che solo un sorriso troppo smagliante incolla sotto il gargarozzo. Il viaggio di nozze è pieno di litigi e di finto entusiasmo.
Andiamo anche a San Francisco, due-tre giorni. Faccio finta di non pensare che Sami stia lì, sono in viaggio di nozze accidenti a me. Mi dico che magari si è trasferito. Di certo non gli potevo telefonare. Mani vuote.
Quasi due anni dopo sono con mio marito a casa, un sabato sera. Ho preparato una cena sfiziosa e noleggiato un film che mi pare carino: “Prima dell’alba”, con Julie Delpy e Ethan Hawke. Guardiamo il film e penso che finalmente ho passato una bella serata con mio marito, era un po’ che non succedeva. La mattina dopo ho ancora la cassetta, la posso tenere fino a lunedì. Mio marito dorme ancora, quasi quasi me la riguardo, sì. La stessa magia di quell’amore improbabile, rubato al caso, tra un americano e una francese, che in una notte viennese dicono tutto, vivono tutto, e solo all’ultimo si confessano che vogliono rivedersi ancora, cercare la magia impossibile. Guardo ancora una volta il film. Lo restituisco, e una settimana dopo lo noleggio ancora. Presto presto, lo riesco a vedere altre due volte prima che mio marito torni a casa. Il cuore mi si spalanca. Cerco di ricreare la magia. Altra cena sfiziosa, altro film, carino, ma non c’è più quell’atmosfera. Sento che mi manca qualcosa.
Sono sull’autobus qualche giorno dopo, torno a casa dal lavoro. Sono a via Nizza, sto per incrociare viale Regina Margherita. Sami! Mi grida la testa. Sami! E il cervello si abbraccia quel nome come un fratello creduto morto. Cento metri dopo l’incrocio ho già deciso: lo chiamo. Vado a casa e lo chiamo. Telefono a suo padre, in Florida, gli dico buongiorno si ricorda di me? Avevo chiamato qualche anno fa. Sì certo, la ragazza italiana, l’amica di Sami, certo. Mi darebbe il numero? Sì ma lo sento recalcitrante. Qualcosa non torna. Gli dico se pensa che ci sarà un problema se chiamo. Dice no, ma forse, sì, insomma, forse è meglio che io sappia che Sami ha una ragazza, che vivono insieme. Che stupido ostacolo, una ragazza. Che problema può essere per due come noi? Due che in due sere hanno fatto e disfatto sogni e destino senza arrivare da nessuna parte? Aerei presi e persi, deserti dipinti, ultimi pensieri prima di addormentarsi.
Lo chiamo, mi risponde la sua ragazza; non ha paura di me, me lo passa tranquilla. Ci parliamo a lungo, come ci fossimo sentiti la sera prima. Lo chiamo ancora, stavolta lei non c’è. Mi dice “Monica sono rimasto solo per due anni dopo aver conosciuto te” fa una pausa “perché non abbiamo colto quell’occasione?”. Mi verrebbe da scusarmi per la mia leggerezza. Di colpo, invece che sentirmi la donna nel giusto che ha tenuto alla sua fedeltà mi sento una cieca che non ha capito cos’era meglio per lei, che ha tradito qualcosa di più importante di un futuro marito. Infedeltà a se stessa e al suo desiderio di questo uomo a cui piace cantare canzoni di Elvis Presley mentre è in macchina, a cui piace infrangere qualche regola ogni tanto, per ricordarsi quanto desidera e quanto è vivo. Un uomo che si nutre anche delle sue emozioni e sa scrivere lettere bellissime. Un’anima così più simile alla mia di quella dell’uomo che ho sposato. Lo svedese mi racconta delle macchine di cui ha letto su Quattroruote e di quanto potremmo chiedere di mutuo mentre io lo ascolto gentile e partecipe invece che urlare di noia e di odio.
Sami e io ci telefoniamo qualche altra volta, gli mando un paio di lettere per convincerlo ad amarmi ma resta dov’è. L’ultima volta che lo chiamo c’è la sua donna a casa, finisce per essere una conversazione a tre, parliamo degli Etruschi. È una telefonata surreale che genera la necessità del mio distacco. Ma è distacco anche da mio marito: troppo amore per Sami per avere spazio per lui, questo almeno l’ho capito. Qualcosa si è rotto quella sera guardando il film, la nostalgia di tutto quello che mancava ha picconato la mia foto di mogliettina dell’ingegnere e non riesco più a recitare.
Decido di partire per gli Stati Uniti, da sola. Non so a fare che cosa. Vado a New York da mio cugino e poi a Boston da amici. Il treno passa per il Connecticut sia all’andata che al ritorno e io che ascolto tutto il tempo una cassetta di canzoni dedicate a Sami, tra cui quelle registrate in presa diretta dal film “Prima dell’alba”, non faccio che piangere, e sperare in un miracolo. Non so quale. Che Sami mi cerchi? Che mi chiami al cellulare che non ho, a New York, per dirmi che ha sentito la mia presenza da San Francisco e verrà a trovarmi? Un viaggio assurdo che ho vissuto in trance, aspettando qualcosa che non poteva succedere. Ma con la convinzione che poteva accadere un miracolo, che ci saremmo potuti incontrare per caso in un aeroporto. Mi guardo in giro al JFK, come dovessi avvistarlo. Non c’è nessuno. Anche ogni volta che ho transitato per l’aeroporto di Copenhagen l’ho cercato tra la folla, i suoi meravigliosi capelli castani che volevo toccare. Ma il rumore dei miei passi sul parquet color noce di Kastrup ha sempre fatto solo un’eco vuota. Me l’ha detto anni dopo che anche lui mi ha cercato negli aeroporti, nella speranza insensata che avrebbe visto i miei capelli ricci ondeggiarmi sulla schiena.
Chiuso il mio primo matrimonio conosco subito Stefano. Mi innamoro, presto andiamo a vivere insieme a Acilia, nel 2000 compriamo una bella villa col giardino, su cui mi siedo come mi fossi trasferita a El Dorado. A natale, il primo natale in quella casa, decido di mandare una cartolina di auguri a Sami. Gli voglio dare il mio nuovo indirizzo, il telefono e anche la mia mail. È una cartolina di auguri disegnata da un bambino iraniano, è rossa. La mando all’indirizzo dei suoi genitori, in Florida, gli dico che con lo svedese è finita ma ora sono felice con un altro uomo, che stavolta è quello giusto.
El Dorado è grande, una casa che chiede di essere popolata. Proviamo ma non riusciamo. L’assenza di figli ci inasprisce, Stefano poco a poco inizia a cambiare e a chiudersi, io mi allontano. Di nuovo noia e grida trattenute, distacco.
Conosco una persona, una persona speciale. Una persona che mi mette in contatto con me stessa, che mi spinge a trovare le mie risorse, a esprimere tutto quello che ho dentro, a esploderlo. Mi innamoro, come mai prima. Mi innamoro di me, in effetti; per questo è così forte. Quest’uomo strano, così infantile e problematico, quasi digiuno di amore, che vive di lavoro, mi punta contro lo specchio della Nuda Veritas di Gustav Klimt e sono senza scudo, mi piego come un Narciso sulla riva e gli chiedo di amarmi. Ma non ce la fa. Non è pronto. L’emozione più grande che prova per me è il terrore. Provo a tenere duro, cerco di blandirlo, rassicurarlo, convincerlo, finché una sera gli mando una mail un po’ dura, cercando di metterlo con le spalle al muro. Ma lui si gira, di scatto, e mi dice di non contattarlo mai più, che basta così, che non mi vuole. Entro in un frigorifero. Penso che sia meglio morire che sopravvivere a questo, sicuramente. Che se lui non c’è, non posso esserci neanche io. Narciso dalla sponda dello stagno ci si vuole calare dentro cosparso di fiori come l’Ofelia preraffaelita, con la bocca dischiusa da un dolore troppo grande.
Ma proprio quella notte di incubo, la notte più buia della mia vita, più buia della morte di mia madre, una mail mi fa saltare come un elettroshock. È una mail di Sami, mai più sentito da anni. Sami quella notte mi scrive, come sapesse, per dirmi che c’è, sapere se ci sono. Mi scrive la prima notte che passa senza quella che è ormai diventata sua moglie, nonché madre dei suoi figli. La prima volta che è solo, pensa a me. E cerca la mia vecchia cartolina di natale rossa col disegno del bimbo iraniano, trascrive il mio indirizzo su una mail e la lancia dall’altra parte dell’oceano dove finisce tra le mie braccia morte di dolore. Suggo ogni parola, mi aiuta più del Lexotan che mi ha dato l’omeopata, talmente preoccupato per come sto da affidarmi anche all’allopatia. Per sette giorni in cui Sami è solo a casa ci scriviamo ogni sera. Non gli dico di quello che sto passando, non sa nulla, neanche oggi, di come mi ha salvato la pelle quelle notti; voglio che resti un’isola perfetta, una striscia di polverina bianca che mi tiene i pezzi di quei giorni allucinati. Ci scriviamo invece di noi, ci confessiamo ogni cosa. Quello che abbiamo provato, quanto è stato forte, tutto quello che è seguito, quello che abbiamo messo da parte.
Ci sentiamo ancora, più avanti, continuano le coincidenze. Io che gli scrivo in un momento duro, lui che lo fa con me. Arrivo a essere preoccupata una mattina che mi sveglio pensandolo dopo tanto che non ci salutiamo, sarà successo qualcosa? Ma stavolta è tutto a posto, mi dice. Solo dopo mi confesserà che era in crisi, in quei giorni, ma non riusciva a parlarne con nessuno, neanche con me.
Nel frattempo la persona che mi ha quasi fatto impazzire ha finalmente messo da parte il terrore ed è tornato da me, per essere il mio uomo. L’uomo migliore che ho mai avuto. Finché io, incalzata dall’età, punto i piedi per avere un figlio con lui: lo voglio avere, a ogni costo. Lui non se la sente, discutiamo, ci allontaniamo. Alla fine, ci lasciamo. Un altro uomo, con cui vorrei finalmente dei figli, è il mio ultimo treno: scopro solo qualche mese fa che stavo incarnando l’eroina di una farsa: in realtà, ero sterile da anni. L’avessi saputo prima, tutto sarebbe stato diverso. Ma è arrivato il tempo degli addii per me. Addio all’uomo-ultimo-treno e alle ultime, ultimissime illusioni di poter diventare madre.
È novembre 2008 e sono all’isola di Pasqua. Una coccia di noce a forma di boomerang dimenticata in mezzo a un oceano sterminato. Prati verdi, poche case, statue moai, mistero e solitudine, e intorno solo esclusivamente acqua, acqua, acqua. E onde altissime e verdi o nere, schiaffoni di natura che mi chiedono il conto. Una notte vado a letto ma dormo pochissimo. Prendo l’agenda Moleskine e inizio a scrivere una lettera, a Sami. Gli dico che sono single per la prima volta da 22 anni. Gli dico che l’Isola di Pasqua mi ha spalancato l’anima e che ho deciso che non voglio morire senza averlo mai rivisto. Almeno una volta. Una volta sola per tutti i sogni che ho fatto, il desiderio che ho allevato senza perderlo mai. Gli dico che posso vederlo solo finché non sono in coppia, perché se lo sono, non è il caso.
Trascrivo la lettera su una mail che gli spedisco da un internet point; mi risponde subito, con lo stesso desiderio.
Siamo poetici e titubanti, improvvisamente la concretezza di una possibilità reale ci riempie di una dolcezza quasi imbarazzata e infantile. Le possibilità sono poche, come sempre: lui ha la sua famiglia e c’è un oceano di mezzo. Ma sappiamo essere determinati. E torna di nuovo la magia delle coincidenze: rifletto un po’ su luoghi e date e gli propongo di vedersi a San Diego la prima o seconda settimana di marzo. La risposta è incredibile: è la sua unica possibilità, ha un congresso a San Diego il 6-7 marzo. Siamo due enormi sorrisi, non abbiamo più neanche una faccia.
Rifletto, ancora. Penso a questo incontro, a cosa può portare. Possiamo vederci solo come amici, passare una bella serata insieme, una pacca sulla spalla e un abbraccio, e poi via. Mhm.. oppure possiamo finire a letto insieme, certo. Facile ipotizzarlo. Ma poi? Mi conosco, non sono una che sa andare a letto con un uomo e basta. Soprattutto non con quest’uomo. Come gestire il poi? Quell’ultimo sms che lui mi manderebbe prima di imbarcarsi in aeroporto, prima di tornare da moglie e figli, conclusivo e grato, affettuoso ma definitivo. E io? Oppure la più selvaggia fantasia: io e Sami ci innamoriamo, decidiamo che non possiamo vivere uno senza l’altro. Quanto dolore genereremmo. Quanto male faremmo ai suoi figli, a sua moglie, una donna che ama da tanti anni, la più importante della sua vita. È giusto questo? Davvero no. Glielo scrivo.
È molto deluso. Ho ragione su tutto, mi dice, ma è chiaramente scontento di questo incontro mancato. Solo dopo vedrò il disegno di questo strano destino: quando gli ho scritto non potevo sospettarlo, ma il 16 febbraio ho subito un intervento pesante: via l’utero e via un ovaio. Il dottore che mi ha operata ha fatto un intervento microchirurgico che avrebbe potuto farmi anche Sami, è una delle sue specialità. Non sarei mai potuta essere a San Diego il 7 marzo, ci metto 5 settimane a recuperare la parte fisica di questa operazione; chissà quanto ancora ci vorrà a recuperare quella morale. Sami mi chiama, parliamo qualche ora al telefono, mi parla anche in modo tecnico dell’intervento che ho subito, mi tranquillizza, mi avvolge di certezze e mi trasmette un senso di inevitabile accettazione del mio danno che mi fa bene. Risentire la sua voce dopo tanti anni è bellissimo. È la stessa. Puntuale quindi il suo successivo commento via mail “riconoscerei la tua voce tra milioni, è il ricordo più forte che ho di te”.
Comincia tutto a cambiare da qui. Cominciano le mail quasi quotidiane, il parlare di tante cose, una alla volta, parlare di vita che non sia solo noi ma tutto il resto, dei problemi che abbiamo. Diventiamo amici, aggiungiamo tenerezza e confidenza a questa straordinaria attrazione, la riempiamo di contenuti come due compagni di scuola che carichino il baule della macchina prima di un week-end di campeggio libero. Tutto era già lì, a nostra disposizione e mai vissuto, scegliamo di poggiare i piedi a terra e vivercelo, cancellare quella distanza che una passione così a lungo contenuta aveva creato tra noi. Cose grandi e cose piccole, entra tutto in questo bagagliaio. Si perde l’inviolabilità del sacro dell’amore impossibile, ma aggiungiamo umanità. Affetto, solidarietà, vicinanza, contenuti, sincerità profonda, fiducia, complicità. Non siamo più siderali ma che bello essere così vicini nella vita dell’altro.
Torna la voglia di incontrarsi, almeno una volta. Gli scrivo che ho cambiato idea. Che penso che ci meritiamo di vederci, che ce lo siamo guadagnato, dopo tutto. Gli chiedo scusa per la mia immoralità: dovrei tenermi alla larga da un uomo sposato con figli, ma per lui, per noi, per questa volta, questa eccezione. Non aspettava altro, sta bruciando. Nuovo appuntamento, a Washington. A giugno. Facciamo piani pieni di tenerezza, ci raccontiamo quello che sogniamo succeda, lui che scende dalla macchina, i miei tacchi che affondano nella ghiaia di un vialetto. Mi dice “Prendiamo la famosa suite del Watergate Hotel!” e io cerco su internet: l’albergo è in ristrutturazione, sarà chiuso fino a ottobre.
Già lo so che con Sami una cosa del genere non può essere un caso: è un presagio. Infatti dopo un paio di giorni di silenzio mi scrive che ha forti dubbi morali. Che forse questa cosa non è giusta per niente, che le eccezioni non esistono, che è tutto così pianificato, così cinico. È il mio turno di restare delusa ma gli scrivo che mi piace di più per questo, che è un uomo migliore ai miei occhi.
Disillusione però. Per un cerchio che non vuole chiudersi mai.
Poi un mese fa una mail: “lo sai che vogliamo venire a Roma? I bambini vogliono visitare Pompei”. Non sa bene come dire, come chiedere. Si immagina che io gli dica che se non viene da solo non mi interessa vederlo. È il mio turno di stupirlo, gli scrivo che sarei felicissima di conoscere la sua famiglia, oltre che rivedere lui. Che mi interessa come persona, tutto quello che lo riguarda. Non saremo mai una coppia, gli dico, ma voglio essere parte della sua vita per sempre. Mi risponde che mi è grato di essere esattamente quella che sono, sempre e in ogni circostanza.
Quindi ci vedremo il 13 luglio. Io, lui, sua moglie e i suoi tre bambini. Ci mangeremo un gelato. La data come al solito non è mai neutra e casuale: il 13 luglio sarebbero stati 21 anni di anniversario con lo svedese, se non l’avessi perso per strada. Ed è anche il quarantaquattresimo non-compleanno di una mia amica morta suicida dodici anni fa. Anniversario di cose perdute e incompiute per qualcosa che invece – in qualsiasi modo sia – concluderò. Vedersi di nuovo, guardarsi negli occhi, toccarsi, è già chiudere questo vecchio cerchio.
E c’è l’ipotesi di vedersi da soli, a cena, due giorni dopo, il quindiciluglioduemilanove.
Il 15 è una bella data. È una data che non è di nessuno, libera per essere ricordata o dimenticata. Una serata per noi, forse, vediamo. Sarà tutto un di più, un regalo.
E poi tornerà a essere nulla, inconsistenza di un fantasma.
Non è lui che aspetto.
Aspetto quello con la brugola, sperando che torni per costruire.