Egle Sommacal e il quartetto di fiati al Karemaski

Nuovo pezzo per slowcult! Recensione del concerto (e quindi anche del cd) di Egle Sommacal con il quartetto di fiati sentito ad Arezzo al mai troppo lodato Karemaski Multilab, con una breve intervista. Il cd è bellissimo, strumentale e ipnotico, da ascoltare con calma. L’altroieri ho sentito di nuovo con i Massimo Volume [fan-ta-sti-ci!!], a presto un’altra rece!

Egle Sommacal: grandi fiati e molto cinema

Arezzo, 21 marzo 2010, Karemaski Multilab

Un concerto di grande classe e eleganza talmente limpida da poter essere affrontato anche come primo ascolto, quello di Egle Sommacal con il suo fortissimo quartetto di fiati (Andrea Martinelli, Giuseppe La Stella, Michele Murgioni e Massimiliano Aquilano). Il chitarrista bellunese ha scritto e arrangiato in splendida solitudine tutto il suo ultimo album “Tanto non arriva”, uscito l’anno scorso, componendo musica per bombardino, trombone, tuba, sax contralto e tenore. Forse quello che colpisce di più è proprio la varietà di ciascun pezzo, non solo da un punto di vista musicale in senso stretto, ma anche tonale. Mood e ispirazione diversa che stimolano immagini molto cinematografiche. Dalle atmosfere più austere all’opulenta sensualità di momenti più hard bop, il tutto disciolto nel blues come in tempera acquerellata: un album decisamente americano, da assaporare con calma, certamente non per tutti.
Allo stesso tempo però, bastano un paio di ascolti perché cresca velocemente, e ci si affezioni alle immagini che evoca. Forse questo è uno dei vantaggi della musica strumentale: il cervello segue più liberamente le sue suggestioni, senza vincoli di tema. Visioni dunque, nel caso del mio ascolto non sempre relazionate con i titoli dei brani.
La scaletta ha rispettato quasi interamente il contenuto dell’album (con un’unica omissione dell’ultimo pezzo), e un’aggiunta in chiusura.
Apertura con “Fuori dal bar” (come nel disco), un blues da street band di New Orleans, qualcosa su cui Grandpa Elliot avrebbe tirato fuori un lamento risucchiandoselo dal gozzo, con una malinconia jazz che ti colpisce a tradimento a metà pezzo. Il secondo brano ha un titolo perfetto: “Alla ricerca di un lavoro”, e sembra davvero veder scorrere delle immagini di un uomo desolato durante la Grande Depressione, un uomo che cerca un impiego ma continua a venire respinto, inesorabilmente, nonostante il sorriso incollato sulla faccia.
Locomotive sbuffanti pigiano su pistoni ludici sotto lo sporco, treni merci di ferrovie americane con i portelloni aperti, su cui salgono giovani o ex-giovani irrequieti, gente che non sta bene in nessun posto, che può solo continuare ad andare, con un finale freddo, da notte calata: è il terzo brano del concerto dal titolo “Le ragazze hanno sempre ragione”, e chissà perché le ragazze, ché sembra sia solo la strada qui a non avere mai torto. “Fumatori di carta” ha invece un incedere marziale, stemperato solo dalla dolcezza della chitarra, una tonalità germanica che ricorda le atmosfere postbelliche alla Anton Karas de “Il terzo uomo”, confermando la vena cinematografica di Egle Sommacal; ma si torna al blues nel pezzo successivo, “Becco d’anatra”, uno dei migliori sotto il profilo chitarristico, che prepara al reprise del secondo pezzo: con “Di nuovo alla ricerca di un lavoro” ritorniamo a Chaplin, al bianco e nero del giovane che nessuno impiega. Ancora un tentativo di farsi coraggio, ma con le gambe sempre più stanche che i fiati trascinano stancamente avanti, e una chitarra sempre più lenta e vicina a capitolare, magicamente arpeggiata nel suo canto del cigno, che dopo un ultimo tentativo soccombe con un gemito di dolore.
Dopo un pezzo molto breve (“Elefanti”), anche questo molto cinematografico, quasi il campo lungo di un western – entriamo nel gran finale del concerto con quattro pezzi splendidi uno dietro l’altro, a cominciare dal primo che è il più bel brano del disco: “Alcuni dicono buonanotte, la sera”. Il titolo è quello di una poesia di Emily Dickinson, e ne rispecchia le atmosfere morbide e malinconiche con una tonalità da jazz anni ’60. “Hospital blues” resta ancora sui toni del jazz, con delle colate gelide di una chitarra che sembra quasi non essere sicura di voler entrare sul funereo incedere dei fiati, che chiudono virando su una tonalità più free con un barrire, garrire, spernacchiare, e sputacchiare di note.
Siamo quasi alla chiusura: il penultimo pezzo – “Il tuo lato di letto” – è suonata egregiamente: il pollice destro di Egle si appoggia fisso e ripetitivo sulla sesta corda mentre le altre dita esprimono tutta la melodia del brano cambiando continuamente stile di arpeggio e tonalità. Chiude la serata “Cancellato”, l’unico pezzo che non fa parte di “Tanto non arriva” ma dell’album precedente, “Legno” (2007), splendidamente riarrangiato per far parte di questo concerto. È un congedo malinconico con un riff blues su dei fiati che crescono spiegando lentamente le proprie ali come nei migliori titoli di coda, con la chitarra che cambia continuamente velocità e Michele Murgioni che, appoggiando le labbra sul bocchino della sua tuba, riesce a produrre la cosa più simile a una vocalità di questo ipnotico concerto.
Egle, partiamo da questo: come mai non usi mai lo strumento voce nelle tue composizioni? O Emidio Clementi legge, oppure il silenzio: come mai?
Continuo a stupirmi per come venga percepita “strana” la musica strumentale…Nella mia discoteca è praticamente prevalente. Con questo non voglio dire che non mi piacciano le voci (con le quali poi ho avuto spesso a che fare), anzi, ma io non canto e non so scrivere un testo, e per ora non mi interessa.
In Italia il mercato discografico è ad appannaggio dei cantanti, in termini matematici: testo (in lingua italiana) + voce personale (non necessariamente intonata…) + carisma del cantante = successo di pubblico. Nulla contro questo orientamento anzi una bella canzone mi incanta sempre, ma non credo sia la mia strada, poi vai a vedere cosa può succedere….

Cosa hai voluto esprimere con questo album?
Niente in particolare… mi interessava un certo carattere “grottesco” un po’ triste un po’ goffo, una sensazione di estraneità.

I tuoi musicisti militano tutti nella mitica Banda Roncati di Bologna. Come è nata la scelta di questi (bravissimi) esecutori?
Il mio contatto iniziale è stato Andrea Martinelli, è lui che mi ha presentato gli altri musicisti e risolto altri problemi logistici… La Banda Roncati ha un approccio non propriamente jazzistico ai repertori che affronta, diciamo un po’ goliardico,
sanguinolento e irriverente, caratteri che i musicisti che suonano con me hanno portato.

Il tuo modo di suonare la chitarra mi pare così diverso qui rispetto sia a Legno che a “Razza Partigiana”, il reading concerto che porti in giro con Wu Ming. Cambierà ancora il tuo stile?
La chitarra acustica ha delle possibilità differenti dall’elettrica, è un altro strumento. Repertori diversi possono richiedere approcci differenti e io cerco sempre di suonare in modo differente, il problema è che spesso non ci riesco….

So che stai lavorando con Emidio Clementi a un nuovo album “Massimo Volume”, raccontaci come sarà.
Stiamo passando molto tempo in sala (i tempi dei Massimo Volume sono vicini alle ere geologiche…), speriamo di entrare presto in studio, comunque già stiamo testando dei brani nuovi dal vivo.