La fine e l’inizio della famiglia

Ho recensito per slowcult due libri appena letti che parlano della famiglia, in modi del tutto opposti tra loro (da cui il titolo del mio pezzo). Sono “Nudo di famiglia” di Gaia Manzini (Fandango) e “Insieme, e basta” di Anna Gavalda (Sperling). Li ho apprezzati entrambi, per ragioni opposte, ma alla fine a entrambi mancava qualcosa.

La fine e l’inizio della famiglia

Ci sono alcuni romanzi usciti di recente che fanno della famiglia l’oggetto della narrazione, molti scritti da donne. Forse l’esigenza è quella di ridefinirla, ricostruirne una geografia o forse un senso, o dimostrarne il non-senso, e quindi distruggerla. La necessità è più che legittima, soprattutto in Italia: da un lato c’è la spinta centripeta e tradizional-cattolica della famiglia come valore quasi assoluto; dall’altro la forza centrifuga di tutto ciò che si oppone a coercizioni stereotipe porta alla necessità di una nuova analisi che renda accettabile-possibile, integrare modelli eterogenei e più adeguati a realtà molto diverse dal passato. Uno dei romanzi più interessanti in questo senso è stato “La vita in comune” di Letizia Muratori, uscito nel 2007, dove si crea una “famiglia” interrazziale a partire proprio da un’esigenza di integrità e onestà sentimentale.
La forza femminile del parlare della famiglia sembra essere proprio questa, comunque: la capacità di dichiarare nudo il re, scarnificarlo, andare a vedere cos’ha sotto la pelle. Forse proprio perché il ruolo “femminile” è abbinato alla ricerca della protezione, è da lì che può muoversi il desiderio di verità e cambiamento, ovvero una protezione più profonda, non basata sui ruoli ma sulla concreta capacità di amare. Nel momento in cui c’è la sensazione che il sistema famiglia si disintegri, che si perdano i ruoli, è nei sentimenti reali che possiamo trovare una salvezza.
Il romanzo di Anna Gavalda e la raccolta di racconti di Gaia Manzini sono due lavori quasi antitetici in questa prospettiva. “Cuore” la prima, “poesia” la seconda: la penna della Manzini è una delle migliori in circolazione. La sua prosa è un continuo avvicendarsi di immagini sorprendenti, originali, ficcanti, poetiche, geniali. Gaia Manzini produce senza alcun dubbio letteratura, leviga ogni parola per creare suoni e immagini di grande impatto. Resta però un po’ confinata lì, quasi prigioniera delle sue splendide parole. I racconti si susseguono uno dietro l’altro con poca variazione tonale, poca diversità nella tavolozza: marrone, beige, carta da zucchero, ghiaccio; i colori speculano sentimenti simili di persone simili: madri nevrotiche incapaci di amare veramente che però cercano una composizione del proprio mondo, in un tentativo di incollare l’anima, nonostante sembri a volte che sia proprio la famiglia a volerla mandare in pezzi. Pochi i racconti che emergono narrativamente da questa unicità emotiva, che si distinguono nel ricordo. Salvo qualche eccezione (come il primo: un’anziana confinata a letto che sogna di nuotare – bellissimo), finito il libro sembra più di avere in testa le immagini di un album fotografico di un’unica famiglia, foto in bianco e nero di persone dai rari sorrisi, sconfitte da se stesse, che condannano altri al dolore, piuttosto che una panoramica variegata dell’universo familiare.
Opposto il romanzo della francese Anna Gavalda. La sua scrittura non ha picchi di prosa, originalità espressiva, larghezza lessicale, né grandi immagini o passaggi indimenticabili; ma anche nella più grigia, deprimente realtà di solitudine e incomunicabilità, non perde mai un senso di legame sensoriale, sensuale con la vita; un desiderare infinito, una speranza profonda di trovare ciò che si agogna. Non sappiamo se la protagonista ex anoressica riuscirà a vivere l’amore con il carnale cuoco Franck, se troveranno un punto di incontro, e se riusciranno a convivere in equilibrio con l’imbranato e dolcissimo nobile decaduto Philibert, ma il segreto del romanzo è sentire cosa “sarebbe” giusto, dove punta la bussola di ciò che è buono, prolifico, fecondo, e cosa no. Di fatto, la sensazione di famiglia qui non è quella della creazione di un nucleo tradizionale funzionante e positivo, ma di inventarne uno lontano dagli stereotipi dove una donna anziana, la nonna di Franck, crea una sensazione di amore, casa e condivisione in cui i tre ragazzi posso tentare di cicatrizzare quelle ferite che, nei racconti della Manzini, paiono insanabili.
La differenza è nella comunicazione: seguire bisogno e desiderio significa fare uno sforzo per parlare, mettersi in gioco, andare oltre convenzioni e parole stereotipate, per incontrarsi veramente, nel cuore.