Recensione di “Altai” di Wu Ming per L’Unità

Ecco la mia prima rece dello splendido romanzo di Wu Ming, uscita oggi sul Unità online.

Altai, i Wu Ming ripartono da Q e riscoprono psiche e femminilità

Due potenze a confronto: la Serenissima e l’Impero Ottomano di Selim II alla vigilia della battaglia di Lepanto, che segna l’inizio del tramonto dell’Impero d’Oriente. Il celeberrimo romanzo “Q” firmato Luther Blissett e scritto dall’ensemble narrativo che ha poi preso il nome di Wu Ming, si concludeva a Costantinopoli 15 anni prima dell’inizio di Altai. Ne condivide l’atmosfera e in parte la storia, senza esserne un seguito. Il protagonista è un nuovo personaggio che, come avveniva in “Q”, cambia nome e identità per ragioni di sopravvivenza ma anche di scelta: Emanuele De Zante, ebreo figlio di un ricco gentile veneziano, e agente segreto della Serenissima, è costretto a fuggire dalla sua città e rifugiarsi a Costantinopoli, dove riprende il suo nome d’infanzia: Manuel Cardoso. Lì è accolto dall’arcinemico di Venezia, l’ebreo Giuseppe Nasi, al quale finirà per dare supporto nel tentativo di costruzione di un regno per gli ebrei transfughi nel mondo.
Il nuovo romanzo del collettivo Wu Ming torna a mettere il naso nelle crepe della storia, a frugare tra le carte ingiallite di coloro che il caso, la storia, l’inferiorità dei mezzi, ha messo tra i perdenti. Raccontandone le ragioni con una precisione stavolta ancora più dettagliata, aprendosi persino all’introspezione psichica del protagonista e narratore con dei flashbacks sulla sua infanzia.
Definire questo un “romanzo storico” ne riduce il significato e non ne significa la fruizione. Non solo perché la Storia è sempre comunque l’ordito delle “storie”, quelle di cui abbiamo bisogno per capire il nostro senso nel mondo e in parte esperirlo, ma perché la materia è resiliente, morbida all’esigenza di una narrazione dove gli aspetti legati all’attualità hanno la stessa profondità del respiro legato all’antico: si fondono in un affresco unico in cui il comune denominatore di passato e presente è il Potere e il suo esercizio. E i grandi poteri sono immutati: politico, religioso, finanziario. Possono nei secoli ripartirsi diversamente le proporzioni di questi equilibri, ma restano i cardini su cui ruotano le larghe sorti della civiltà.
Ma questo non è mai “il” tema dei romanzi di Luther Blissett/Wu Ming, semmai il suo ordito. La vera narrazione è contro-epica: la storia di quelli che hanno perso, di quelli che non la fanno, dei piccoli, degli sfollati, dei bambini orfani, delle donne violentate, della carne da cannone.
C’è tutto in Altai. La tonalità dolente che era stata espressa in Manituana qui è ancora più accentuata: si sente un passaggio emotivo molto forte negli autori, riconducibile forse anche a due eventi determinanti nella loro storia di collettivo: il primo è stata l’uscita dal gruppo di Wu Ming 3, avvenuta durante l’estate del 2008: un scelta necessaria per l’equilibro dell’ensamble, ma lacerante sotto il profilo umano. Come in ogni separazione, al momento del distacco tutto sembra avere solo il buon senso della chiusura che fa terminare i conflitti, ma poi bisogna elaborare il lutto. E ritornare a “Q”, seppure solo da un punto di vista temporaneo, è un po’ come guardare le foto del matrimonio fallito e cercare di dargli un senso nuovo, affettivo.
L’altro evento che ha reso Altai un lavoro diverso dai precedenti è la pubblicazione di “Stella del mattino”, romanzo solista di Wu Ming 4, che ha tolto, crediamo per sempre, una tonalità di “freddezza” alla narrativa wuminghiana. “Stella del mattino” è un romanzo fortemente umano e intimo, di conflitto interiore, confronto coi propri fantasmi, i persecutori interni: trovare forza nella debolezza, debolezza nella forza. Il romanzo meno machista ma forse il più realmente “virile” di tutta la produzione Wu Ming ha aperto una strada da cui Altai non ha fatto un passo indietro ma due avanti: al centro della narrazione ancora gli stessi conflitti, ma più attenzione ai processi di evoluzione psichica, alle relazioni tra esseri umani e in particolare tra uomo e donna, alla difficoltà del produrre un senso congiunto. C’è molto più eros e amore in questo romanzo che in tutti i precedenti, ma c’è anche l’incapacità a viverlo ed esprimerlo, a dargli un valore di fecondità. Se ogni essere umano è per sua natura biologica “figlio”, quelli di questo romanzo sembrano tutti nati per sorte o per condanna. Ogni genitore li può rivendicare singolarmente per sé, ma manca la “famiglia”, l’unità di un nucleo dove si fondino e equilibrino maschile e femminile. Le donne che compaiono nel romanzo sono più sfaccettate rispetto ai primi lavori di Wu Ming, ma restano enigmatiche per i loro corrispettivi maschili, una tensione a qualcosa che non si raggiunge, l’espressione di un modo diverso di sentire il mondo a cui viene negato uno spazio. Le donne non sono decision-makers e quindi sono costrette a tramare nell’ombra, a esercitare una solidarietà interna che spesso si traduce in conflitto contro la gestione maschile del potere. Ancora troppo simili a divinità guerriere che a donne reali, ma decisamente più ricche.
Un ultimo doveroso commento sullo stile, anche questo in qualche modo collegato splendidamente a “Stella del mattino”: una prosa asciutta, pulita, raffinata, ma emotiva e trascinante, con momenti pastosi, femminili, indimenticabili. Chiunque abbia amato “Q” non resterà deluso da Altai.