Recensione del romanzo di Emilia Zazza

“Si sta facendo notte” di Emilia Zazza

Un romanzo breve ma densissimo: la prima prova di Emilia Zazza non è affatto timida ma assertiva, e tocca temi grandi e forti, che fanno pensare. C’è un quartiere di Roma, che i romani riconosceranno essere  il Pigneto, zona ex proletaria che ora vira verso il radical chic, perdendo la sua anima popolare (“Un parco a tema. Questo ne faranno”). C’è l’anima popolare che si perde da sola nel conflitto con i migranti, gli “ex-noi” che forse vogliamo dimenticare di essere stati; c’è il conflitto e la distanza delle generazioni, i buoni e i buonisti, i “giovani” che intuiscono quale sarebbe la direzione giusta, ma non sempre riescono a prenderla, storditi dall’iperstimolazione di modelli mediatici; c’è l’amicizia tra loro, la forza che tende l’arco di quegli incontri, quella che tutto riscatta, alla fine, con la Maggica a fare da cemento e collante. Pino, Mustafà e il Moretto sono ragazzi veri, che se giri per le strade del Pigneto incontri a ogni angolo. C’è il desiderio di andare via da lì, come se il quartiere portasse dentro una condanna: “Chi restava sapeva che tra male e bene non c’era differenza, non in quei posti. Tra il male e il bene c’era solo il caso.”. Il quartiere di Don Camillo e di Peppone dove i ragazzi scelgono lo scoutismo o il centro sociale.

La storia si dipana in immagini che, soprattutto all’inizio, di capoverso in capoverso alternano il presente al passato, cucendo insieme trame, famiglie, anime: capoversi corali come storie ascoltate per strada, quasi rubate con le orecchie, e riferite fedelmente in un parlato realissimo, che Emilia Zazza ci fa ascoltare come l’avesse stenografato, con rispetto e con l’umiltà di chi in quelle strade non ci è cresciuto, ma le ha capite, le ha sentite nel profondo. E la sua presenza si adombra in un personaggio, Flaminia, presentata con le sue giuste contraddizioni.

Partiamo da questo: da te. Cosa ti ha spinta a voler raccontare questa storia?
Lo spunto è venuto da un fatto di cronaca realmente accaduto nel quartiere e del quale non riuscivo a capire le dinamiche. Per farlo ho provato a indagare e ho iniziato a mettere in scena, su carta, personaggi e eventi. Non avevo una meta precisa, forse ne sarebbe venuto fuori un saggio, al massimo un racconto. Ma niente di tutto questo è però rientrato nel romanzo. Perché a un certo punto sono comparsi i tre ragazzi e da lì è partita tutta la storia. Ho capito che stavo scrivendo un romanzo e che il romanzo avrebbe raccontato la loro educazione sentimentale e sociale. Quindi lo spunto è stato un fatto reale, ma l’esigenza è venuta con l’entrata in scena di Pino, il Moretto e Mustafà.

Ho abitato per qualche anno al Pigneto e al quartiere sono legata per motivi di famiglia. Ma ci tengo molto a precisare e a sottolineare che Si sta facendo notte non è una storia sul Pigneto. Infatti il luogo non è mai nominato, sebbene sia geograficamente riconoscibile per chi vive a Roma. È un paradigma, quasi un teatro di posa, se non un personaggio esso stesso, descritto con estrema minuziosità, a volte, proprio per riuscire a decontestualizzarlo. Se infatti la storia e i personaggi raccontati hanno degli aspetti molto romani, credo in realtà che, mutadis mutandis, lo smarrimento che domina i tre ragazzi, la confusione sociale, la perdita delle radici e la mancanza di slancio verso il futuro, sia riscontrabile in buona parte del paese. Così come il processo di gentrification che sta caratterizzando molti quartieri di grandi città del nord e del sud.

C’è un inizio morbido, da infanzia tenera di strada, ma con il crescere dei tre protagonisti si ispessisce un senso di violenza, anche immotivata, gratuita. Quella del razzismo, quella della curva, persino quella sessuale. Che succede?

Succede che Pino, il Moretto e Mustafà (epigoni di altrettanti diciottenni in giro per l’Italia) hanno perso ogni contatto con la storia passata (una responsabilità che ritengo  sia tutta sulle spalle dei più grandi, dei genitori, dei fratelli…) e non hanno quindi strumenti per interpretare il presente e i grandi cambiamenti che si susseguono. Il nuovo aspetto che sta prendendo il quartiere, i nuovi che arrivano, gli interessi economici e immobiliari che aumentano, ma anche le ragazze che si rifiutano di essere trattate come stereotipi, li lascia smarriti. Si ritrovano in questo momento di passaggio, non sanno come affrontarlo e, cosa più grave, non hanno nessuno a cui chiedere. Non è più il quartiere, il Paese, di una volta, dove si affrontavano Don Camillo e Peppone, ma dove c’era uno slancio verso il futuro, possibilità, accoglienza, comprensione per il diverso, per chi era in difficoltà.

Un tema forte di questo romanzo mi pare sia il senso di appartenenza, declinato in ogni sfumatura. Una sensazione di “clan” che non va solo dal frequentare la moschea all’andare allo stadio, ma che interessa persino una donna così equilibrata e progressista come la madre di Pino, Livia, che ammette che nel suo quartiere sta bene perché si sente “rispettata”. È importante come antidoto al senso di smarrimento dell’identità?

Non risponderò in senso assoluto, ma mi riferirò solo al romanzo. L’appartenenza, il clan, nel caso dei protagonisti e dei co-protagonisti, diventa un rifugio, una chiusura. Diventa la ragione per la quale tutto deflagra. Perché è un’appartenenza non data dalla conoscenza e dalla coscienza, non è data da una scelta consapevole di condivisione, ma dalla paura. Non è data dall’apertura verso l’altro, dalla costituzione di una società, benché piccola e particolare, ma dalla chiusura. Non crea una comunità forte, capace di confrontarsi e aprirsi all’esterno, ma piuttosto un clan che esclude, ostile. In questo caso, l’identità, inaridisce e sbarra il passo al futuro.

Non sono molti, per fortuna, i personaggi interamente “positivi”. Ognuno è controverso, con luci e ombre, in conflitto con se stesso e alla ricerca di un suo ruolo. A parte il Sor Gino, figura commovente e tenera di qualcosa che sembra davvero non esserci più. Hai avuto “bisogno” di lui in questa storia?

Sì. Il sor Gino segna la continuità. È il personaggio che “si prende cura”, è il nonno. È, se vogliamo riprendere anche la domanda precedente, colui che cerca di costruire una comunità in senso positivo. Ce ne sono altri, di nonni, nel romanzo e, per quanto alcuni di essi siano controversi (penso alla nonna Nena), risiede in loro maggiormente la continuità. Nel bene o nel male sono loro che si prendono cura, si sentono responsabili, di ciò e di chi verrà.

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