Quattro minuti (da “Tutti giù all’inferno”)

Questo è uno dei racconti che ho pubblicato nell’antologia Tutti giù all’inferno e prende ispirazione da WM1, facendo riferimento a un suo pezzo letto su una mail di Giap qualche anno fa. Si parlava del carcere dell’Asinara e del fatto che ai condannati venissero dati solo quattro minuti per fare la doccia, anche se WM1 dice che il testo più esaustivo sull’argomento si trova qui.
Sono le riflessioni e i pensieri ossessivi e un po' bui di un giudice in pensione durante un bollente viaggio in una metropolitana senza aria condizionata.

La versione rtf è scaricabile qui.

QUATTRO MINUTI

Vent’anni oggi. Già vent’anni, ma ieri, sembra ieri. Il viso non me lo ricordo più ma lo sguardo lo riconoscerei anche adesso, mi viene a guardare, la notte. È lunga la notte dei giudici in pensione. Me l’aveva detto Marcucci, i giudici in pensione pensano troppo, hanno troppi ricordi e poco sonno, e Simenon l’ho finito tutto da un pezzo. Questo caldo infernale, farà così caldo all’Asinara? Solo quattro minuti per la doccia.

Il bagno caldo o freddo, a fine giornata, mi scioglieva. “Profilo di marmo”, un soprannome sgradito quello che mi aveva affibbiato Marcucci, ma vero, Cristo: spesso gli imputati li guardavo di profilo. Una tattica, un trucco per farli sentire in soggezione, per dargli a intendere che non gli credevo; tenerli sulle spinte, farli contraddire. Ma Bianchi no, aveva gli occhi duri e non li abbassava mai. Durante tutto il processo già sapeva come sarebbe finita, se l’aspettava che il giudice con lo sguardo di marmo avrebbe accolto le prove indiziarie e le testimonianze del pentito. Solo quattro minuti per la doccia, all’Asinara. Il pentito rivisto in aula, due anni dopo, un processo per contrabbando, si è beccato un annetto con la condizionale, poi chissà che ha fatto, altri trucchetti di sopravvivenza, con la furbizia dei cretini, quelli bravi a tenere il naso fuori dal pelo dell’acqua. Bianchi invece no, sembrava esserci tutto, lì, in aula, ma allo stesso tempo stava già guardando oltre, alla frontiera che non era riuscito a passare. Aveva una pietra legata al piede, e l’acqua che saliva, ma aveva troppa rabbia per condividerla con noi, sembravano noi i poveri mortali, non lui l’imputato. Talmente tanta rabbia che era come… distaccato, ecco, distaccato, sembrava che il dibattimento non lo riguardasse, faceva sentire me un trombone, noi tutti dei piccoli insetti affannati.

Che caldo, oddio che caldo. Ma è umano questo vagone di metropolitana soffocante senza aria condizionata? Non bisognerebbe rivoltarsi tutti contro questo trattamento, scendere in piazza? Che fa l’amministrazione comunale? Che dice la stampa? Vergogna, che vergogna, non bisogna accettare così la situazione. Dovevo prendere un taxi anche al ritorno, perché non ho aspettato più a lungo che ne passasse un altro? Condividere questo mezzo pubblico insieme a questi altri pezzenti che non sanno ribellarsi, scioperare contro i 50 gradi di questa bara di lamiera di vagone.

Farò una doccia appena arrivo, ne farò due oggi, non me ne frega niente del mio voto, oggi devo farmi una doccia quando arrivo altrimenti non dormirò nulla, mi resterà appiccicato addosso questo sudore infernale e Bianchi sarà lì col suo sguardo freddo a leggermi dentro. Con lui non sono bastati né il profilo né il marmo. Si è fatto un giro dentro la mia anima, mi ha soppesato come un polpo morto sul bancone del pescivendolo e ha capito che l’avrei condannato perché condannarlo dovevo, le prove indiziarie, il pentito coniglio e coglione. Sapeva tutto dall’inizio e ha solo detto quella frase alla fine “io non credo nella sua giustizia”.  L’ha detta solo per me, per dimostrarmi che non l’avevo colpito, da nessun punto di vista. Indifferenza come una lama, ha tagliato il marmo, mi ha lasciato solo un tentativo di profilo.

La mia unica sentenza debole, in 36 anni di carriera. Per una volta, una volta sola, ho agito per lassismo, ho seguito la corrente, ho fatto finta di ragionare, di indagare, di applicare il codice. Ricordo ancora in aula quei gesti secchi e rapidi a sfogliare gli incartamenti, il mio viso atteggiato in una posa accigliata. Ma non leggevo niente, non studiavo niente, la condanna usciva dalla situazione e non dai fatti concreti. La sentenza anche a rileggerla oggi è impeccabile, la correttezza formale assoluta, sfido chiunque a trovare errori nell’analisi o nella procedura, ma ciò nonostante io lo so che a guidarmi fu solo la mia non presunzione di innocenza, piuttosto che i fatti e il codice. La colpevolezza del terrorismo e non degli atti. Che fosse stato lui o meno a sparare non aveva peso, contava solo che lui avrebbe potuto farlo, che certamente quegli occhi, quello sguardo, potevano essere quelli di un terrorista, un assassino, non importa di quale vittima, a che ora, con quale arma, a quale distanza.

L’ultimo bagno caldo l’ho fatto vent’anni fa. Solo quattro minuti una doccia all’Asinara.