Una lettura della mostra monografica dedicata al grandissimo fotografo Mimmo Jodice che si è appena conclusa a Roma, scritta per La poesia e lo spirito.
Mare fuso: la natura secondo Mimmo Jodice
Si è appena conclusa al Palazzo delle Esposizioni di Roma una mostra monografica su Mimmo Jodice, doveroso tributo a uno dei maggiori fotografi italiani di tutti i tempi. Un percorso soprattutto cronologico e implicitamente tematico che mette in contatto con la storia e lo stile di questo artista partenopeo che pur avendo viaggiato in tutto il mondo ha probabilmente espresso il meglio raccontando la sua Napoli.
Dagli esordi sperimentali degli anni ’60 con foto strappate e sovrapposte (“Paesaggio interrotto”, “Frattura” o immagini di “Taglio” alla Fontana), passa presto a rappresentare il proletariato, non solo quello urbano con le fortissimi immagini di una “Ercolano” pasoliniana, o la serie dell’ “ospedale psichiatrico”, ma pure quelle della fabbrica, con alcuni scatti presi anche nelle acciaierie di Terni. La sua scelta totale del bianco e nero storicizza le figure, le congela in modo statico ed eterno come lava su Pompei, fino a che inizia a ribaltarsi: non sembra essere più l’umanità della figura ciò che interessa, ma l’essenza archetipa che incarna. Comincia così la sere di immagini dove la presenza carnale-umana sparisce, sostituita da simulacri: sono le statue il soggetto rappresentato, statue o immagini andriformi spesso mutile, corrose, sfigurate, alle quali Jodice dona a volte cinetica usando un effetto di zoom, in modo forse un po’ ripetitivo e pleonastico. E dove manca persino il simulacro ci sono solo i fantasmi dell’umano: una macchina coperta da un telo, finestre finte, sbarrate, cumuli di scarpe polverose, vecchie sedie accatastate. Un’atmosfera post-atomica, caliginosa, eternamente passata, morta, sfuturata.
Anche nelle città estere ritratte, che sia Parigi, Tokyo, San Paolo o New York, la presenza umana sembra un passaggio avvenuto ma concluso, mancano i simboli rintracciabili della corporeità, che resta ectoplasmica. Immagini che nella definizione dello stesso Jodice “non appartengono alla quotidianità”.
Più compiutamente negli scatti tra il 1994 e il 1997 (intitolati “Eden” nella mostra) emerge il senso decadente dell’umanità come mera “consumatrice” di vita: animali uccisi, squartati, scuoiati per essere venduti e mangiati, con le macchine per farlo: tritacarne, affettatrici; e ancora pesci agonizzanti e soffocati, e merci simulacro di genere umano: una tutina da neonato, un manichino di donna, sedie di plastica.
Come per rifiuto di questi meccanismi di morte, Jodice arriva al mare, ci arriva come un eroe omerico: la spiaggia come approdo, come sguardo di fuga dalla piccolezza della materia per aprirsi all’infinito dell’orizzonte. Talmente infinito, che per ritrarlo programma tempi di scatto lunghi e chiude l’obiettivo, ottenendo un effetto liquido per la superficie acquosa: via le onde, via il movimento; tutto si al liscia, si trasforma in una colata di metallo fuso racchiusa tra alcune quinte: scogli di mare, una banchina, la scaletta di una piscina. Ma l’immagine più forte di quelle scattate con questa tecnica è forse quella di una sdraio su una spiaggia, unico elemento a fuoco contro un orizzonte che è talmente soffuso e splendente da non sembrare neanche in bianco e nero.
“Sicuramente chi guarda le mie fotografie sta guardando i miei pensieri” afferma l’artista, che negli ultimi scatti di natura morta e ancora dominata dall’assenza dell’uomo, racconta attraverso alberi spogli e piante imbustate nella plastica un pericolo della distanza dalla pienezza della natura, dandoci un monito.