Andrea Chimenti raccontato all’Unità online

Sono innamorata della sua musica e di tutto quello che fa. Andrea Chimenti lo conoscevo molto superficialmente da molti anni (una cosa che ha del misterioso e dell’incredibile per me, anche contando la collaborazione con David Sylvian, uno dei miei pilastri musicali, e la mia venerazione quasi trentennale per Gianni Maroccolo), fino a che il 14 maggio scorso il grande Tamagnini di Radio Città Aperta ha passato la sua cover di “Vorrei incontrarti” e dal primo attacco di quella chitarra distorta, quel piano e quel canto sono corsa davanti alla radio per sentire chi fosse quel musicista, quella voce. E ora sono pronta alla laurea in chimentologia, ma ne vale davvero la pena, “Tempesta di fiori” è il bell’album di quest’anno, qualsiasi cosa esca da oggi in poi, ma tutta la sua discografia è potente, densa, viscerale, splendida.

Ed è quindi con una certa emozione che vi propongo il mio pezzo uscito ora per Unità online. More to come, stay tuned…

Chimenti, tempestoso e felice
Di Monica Mazzitelli

Ci sono voluti cinque anni perché uscisse il nuovo album, ma l’attesa ci ricompensa: “Tempesta di Fiori”, il cd di Andrea Chimenti uscito il 30 aprile scorso, è un piccolo scrigno di capolavori. Ascoltatelo tutto quest’album, per tre volte, e tornerete a farlo: ogni pezzo vi chiamerà con la sua storia, la sua atmosfera, come la miniatura di un mondo da scrutare sotto una lente di ingrandimento.

Colorato, fiorito, libero, variato. A lui che è un musicista prima di tutto raffinato la definizione probabilmente non piacerà, ma questo lavoro è pieno di “singoli”, pezzi che si infilano facilmente sotto la pelle, che sia per la melodia pop o al contrario per la ruvidezza intimista degli arpeggi, soprattutto nelle chitarre a volte quasi shoegaze di Stefano Cerisoli, talentuoso musicista e produttore del disco insieme a Guglielmo R. Gagliano, polistrumentista davvero impressionante. La lista degli strumenti – non solo quelli di Gagliano – va ben oltre il rock: corde, fiati, percussioni, vibrafono, clavicembalo, accordion e via variare, ma senza ostentazione: i suoni cambiano da pezzo a pezzo, sottolineando testo e melodia, ma ogni volta sono chiamati in causa esclusivamente quelli davvero necessari, fosse anche per una partitura di sei sole battute. Probabilmente per questo diventano parte del tappeto sonoro in modo talvolta non identificabile, e questo elimina un fastidioso senso di ostentazione compiaciuta che si riscontra in analoghe produzioni musicali.

Variazione, quindi, all’interno di un album molto coeso e omogeneo come ispirazione. La voce di Chimenti esprime una personalità più forte che in passato, un carattere che ha perso “somiglianze” con altri ed è compiutamente distinta, mantenendo una capacità di modulare i toni: dal dolente al recitato, dal melodico all’operettistico. Ed è tutto necessario per un album che è un piccolo compendio di musica, dal post-rock indietro fino alla classica (con un divertissement mozartiano) passando per Beatles, Japan, chanson francese. Non si tratta però di un salad bowl ma piuttosto di un vero melting pot, una stratificazione di esperienza: Chimenti ha cominciato a suonare dai primi anni ’80 (con il gruppo wave dei Moda) e quello che può permettersi di esprimere sono 30 anni di musica tatuata nelle orecchie e sull’anima.

Ed è intorno all’anima che si snoda la narrazione: questo album è un percorso dalla delusione amorosa alla felicità della fiducia ritrovata, tanto che si potrebbe quasi invertire la scaletta e creare un percorso in crescendo, dove solo un pezzo non appartiene al cammino: la splendida “Delicato guerriero” dedicata al figlio Francesco, session man di questo album come violoncellista. Narrazione perché una componente importante è sicuramente quella testuale, con liriche in tono con la migliore tradizione di Mogol, ma con punte più ampie di inquietudine, dove spesso alla facilità della rima sono preferite assonanze o rime interne che danno un senso ciclico e rotondo ai testi.

Menzione speciale per la cover “Vorrei incontrarti” dal primo magnifico album “Aria” di Alan Sorrenti, capolavoro unico nella storia del progressive italiano. La versione chimentiana ha arrangiamento strepitoso, con un potente raddoppio della traccia vocale all’inizio a dare una profondità quasi di basso all’armonia su cui si appoggiano le migliori variazioni melodiche della voce del cantautore reggiano, sulle quali si inserisce in modo preciso e molto ben modulato la voce di Giovanna Strivieri.

Accanto a suoni più tradizionali del pop rock questo album è ricco di timbri e atmosfere indie e post rock molto convincenti. L’alchimia con musicisti anagraficamente più giovani di te pare aver funzionato benissimo. Che meccanismi ha la vostra interazione?

I meccanismi assomigliano molto a quelli dell’innamoramento. Deve scorrere qualcosa di speciale tra due artisti che decidono di collaborare. Mi è accaduto ogni volta che ho creato un sodalizio artistico, sia stato per un solo disco o per un periodo più lungo di collaborazione. Questo “innamoramento” abbatte la differenza di età permettendo di dialogare su di un piano più alto, scollegato dalla ragione e dal calcolo. Stefano Cerisoli e Guglielmo Gagliano, musicisti fulcro di questo lavoro, sono stati un incontro fortunato. Io tendo sempre a lasciare molta libertà a chi lavora con me… è necessario che ognuno possa esprimersi lasciando una parte di sé all’interno della canzone. È necessario affinché si tratti di una vera collaborazione e non semplicemente dell’utilizzo di un musicista o peggio ancora di uno strumentista. I limiti, all’interno dei quali si svolge il lavoro, sono posti naturalmente e sono quelli della mia scrittura.

Il leitmotiv dei testi di questo album sembra essere l’intensità emotiva, che sia felice o addolorata, sfacciata come poesia. È più facile esporsi a cinquant’anni?

Forse sì, almeno nel mio caso. Ho meno voglia di dimostrare altro da me e sempre più voglia di essere, mostrandomi con semplicità. Con gli anni molte barriere crollano e si riescono a dire cose che non avremmo mai detto prima. Cerco di essere più semplice, sto cercando di spogliarmi da tante inutili difese.

C’è un senso di grande libertà dai condizionamenti e da se stessi in questo lavoro, più ancora che nei precedenti. Anche la tua voce sembra essere totalmente tua, omogenea, caratterizzata. Hai posto l’accento su questo o è venuto naturale?

Le cose più genuine avvengono sempre naturalmente. Mi sono trovato con queste canzoni scritte negli ultimi anni che sottolineano un bisogno di cambiamento di vita, di abbandonare il vecchio per abbracciare un nuovo senso delle cose. Sono sensazioni che finiscono per influenzare il modo di scrivere e l’interpretazione… ho bisogno di liberare maggiormente la voce cercando la melodia. Ogni disco che ho fatto ha segnato un passaggio, altrimenti non l’avrei fatto. Difficilmente riesco a scrivere una canzone in modo artigianale, scrivo solo se ne sento la necessità, altrimenti non nasce nulla. Da un lato è un limite, dall’altro sono sicuro di scrivere qualcosa che per me ha sempre un significato. Al momento che il disco esce spero che altri possano condividerlo nell’anima facendolo proprio… guai se non accadesse.

In questi ultimi anni hai lavorato molto più in Francia che in Italia. C’è solo la fuga per chi non si tuffa nel fiume del mainstream?

Diciamo che ho svolto un po’ di lavoro in Francia, ma il grosso del lavoro è stato italiano. L’Italia non regala nulla e non premia coerenza e dedizione, quasi mai. È un paese al totale sfascio, molto più di quanto immaginiamo, pagheremo un prezzo molto salato nel prossimo futuro. Un paese che non investe sulla propria cultura è un paese che rinuncia al suo futuro. Ho un figlio che inizia a fare il mio stesso mestiere e spero vivamente che se ne vada all’estero affinché possa avere qualche possibilità di esprimersi. Qui hai a che fare con troppe barriere e anche quei rari luoghi deputati all’“arte”, sono manipolati e gestiti da piccole mafie dove se non appartieni a determinate fazioni sei completamente tagliato fuori. La libertà in campo artistico è pura fantasia nel nostro paese, o meglio, la puoi raggiungere a tuo rischio e pericolo, tirando notevolmente la cinghia. A volte la fuga resta l’unica via di salvezza, come avviene per i nostri ricercatori. In Italia, chiunque lavori nella sfera della conoscenza che sia attraverso un percorso artistico o scientifico, inizia con un bel muro da scavalcare per scoprire, una volta arrivato in cima, che di là non c’è niente. Quando vado all’estero il confronto è inevitabile, ti senti un lavoratore nel mondo della musica o dello spettacolo… qui da noi invece… l’altro giorno mi hanno bloccato il mio esiguo conto in banca perché si sono accorti che sulla stipula del contratto avevo scritto Musicista alla voce “professione”. L’addetto in banca ha detto che non era una professione. Ho impiegato un mese per capire il motivo di tale blocco, con tutti i problemi che ha comportato. È un esempio che non deve stupire.

C’era un’intenzione narrativa precisa in questi pezzi, o il mosaico ti si è chiarito quando avevi posizionato tutte le tessere?

Solo alla fine ho composto il puzzle. Ogni canzone è nata a sé, apparentemente scollegata dalla precedente. Solo alla fine mi sono accorto del filo che le legava. Accade spesso, tu sai bene quanto sia libero e spesso incontrollato un flusso creativo, ma ha sempre una sua ragione d’essere, un significato globale.

Un curiosità per chiudere: come mai in “Feroce e inerme”, uno dei pezzi più belli dell’album, la citazione del film “L’Australiano” di Jerzy Skolimowski?

È un film che ha segnato la mia adolescenza. Quella frase in particolare mi è rimasta in testa, tanto che mi ha influenzato in una canzone scritta anni fa dal titolo “L’albero Pazzo”. La follia è ben descritta nel dialogo del film e ho voluto metterlo in Feroce e Inerme, una canzone che parla della fine di un amore… quanto di più vicino al baratro della follia si possa vivere da “sani”.