Lucas (Mads Mikkelsen) e Theo (Thomas Bo Larsen) sono cresciuti insieme in una piccola cittadina della campagna danese, andando spesso a caccia con un gruppo storico di amici. Theo e la moglie litigano di frequente e a farne le spese è la loro secondogenita Klara, una bimba di 5 anni che frequenta l’asilo dove Lucas ha trovato un lavoro temporaneo – avendo perso un posto da insegnante a causa dei tagli alla scuola. I genitori di Klara la trascurano molto e, nel momento in cui Lucas la tratta in modo gentile e protettivo, la bambina sviluppa per lui una cotta infantile: gli regala un cuore e lo bacia sulle labbra.
Lui le spiega con dolcezza che questi comportamenti non vanno bene ma la bambina, ferita nell’orgoglio e senza rendersi conto delle conseguenze, dice alla preside che Lucas le ha mostrato i suoi genitali, descrivendo la cosa con le stessa parole che ha usato suo fratello maggiore il giorno prima, mentre le mostrava brutalmente uno spezzone di un filmato porno. Da qui in poi, nonostante la bambina provi a ritrattare, comincia la caccia al maniaco, che neanche uno scagionamento giudiziale fa arrestare.
Dopo il grandissimo successo di Festen del 1998 (il primo film girato secondo i canoni estetici del movimento del Dogma 95, creato dal regista con Lars Von Trier) seguito da tre flop, il regista danese Thomas Vinterberg è riuscito a siglare di nuovo una pellicola di successo (meritatissima Palma d’Oro come miglior attore per Mads Mikkelsen lo scorso Cannes), affrontando da un’angolazione diversa la medesima problematica, quella degli abusi sessuali sui bambini. E forse è proprio essere stato il regista di Festen che gli consegna il lasciapassare “morale” per essere autore di questa storia dove la vittima non è – all’apparenza – la bambina, ma l’adulto. Ma la storia è più sottile di così, di come potrebbe apparire, perché il vero problema resta quello della violenza subita dai bambini, in seno alla famiglia e alla comunità.
Vinterberg infatti non si limita a parlare di un microcosmo, ma amplia il discorso a un livello quasi antropologico: la scena si apre su un gruppo di uomini seminudi per gioco: vince chi si tuffa in un laghetto un gelido giorno di novembre. Sono uomini dalla pelle lattiginosa, col ventre sfatto e prominente, chiome trascurate, movenze rattrappite. Lucas è l’unico uomo dal corpo asciutto, è vestito, non è chiassoso. Ed è anche l’unico divorziato, alle prese con grosse difficoltà con la ex moglie per poter stare con il figlio adolescente, con il quale ha un rapporto di profondissimo affetto. È un diverso che tenta di passare inosservato, ma viene scagliato in un turbine di malevolenza dalla comunità che, come in Dogville (di cui si sente un’eco precisa), passa dalla fiducia e stima a un latrante odio nei suoi confronti. Anche la casa in cui vive da solo (nell’attesa di poterlo fare col figlio) è diversa da quella dei suoi amici: essenziale e moderna rispetto al loro compiacimento rassicurante e piccolo borghese. Il contrasto è in ogni aspetto esteriore, ma soprattutto nella sostanza, e in questo senso il film ribalta anche le aspettative dello spettatore.
Ci è dato capire senza ombra di dubbio che Lucas non ha abusato nessun bambino, e viviamo un disagio profondo nel vederlo alle prese con un’accusa che rifiuta con chiarezza e forza, ma senza MAI, neanche una volta, usare la bambina per farsi scudo, mai una volta accusarla, aggredirla, rimproverarla, usarla. In questo senso non abbiamo dubbi sul suo comportamento: è l’unica persona che non le fa mai violenza, neanche per salvare la pelle, farsi umanamente giustizia. Vorremmo che lo facesse, tutto il film. Che finalmente la sbugiardasse, quella piccola mendace, ma Lucas ci educa e ci illumina su questo: è una bambina, è innocente a prescindere, perché non sa cosa sta facendo, non può capirlo fino in fondo; e mentre tutti la strattonano e la usano come scintilla di odio, lui la lascia in pace, continua a proteggerla come non hanno fatto i suoi genitori prima di tutto questo, quando se la dimenticavano a scuola o non ce la accompagnavano, o come ha fatto suo fratello obbligandola a guardare un video osceno, e soprattutto come fanno tutti dopo, con interesse tardivo, tentando di estorcerle verità false che la confondono, la angosciano, la manipolano. Come a sedare il loro senso di colpa: chiunque l’ha trattata senza amore e rispetto prende a soffocarla con attenzioni fagocitanti e intempestive.
Lucas non cede mai alla tentazione di scagionarsi a spese di Klara, e con arte sottile e un po’ sadica Vinterberg non ci propone scene che potrebbero darci sollievo, come il verdetto di scagionamento, ma solo quelle in cui lui, sempre più umiliato dalla comunità dogvilliana che lo aggredisce fisicamente, gli viola la casa e gli ammazza il cane, sceglie di imporre se stesso solo attraverso la forza della sua limpidezza, del suo nitore. La cosa che sembra addolorarlo di più è il fatto di aver perso la sua identità: persino il suo migliore amico dubita di lui, lo accusa con infamia, lo picchia. Soltanto suo figlio e un altro amico gli sono vicini senza nessuna esitazione, e gli danno la forza di entrare in chiesa la notte di Natale, quando tutta la comunità è riunita, e affrontare Theo per dichiarargli tutta la sua delusione. Dovrebbe essere il momento dell’agnizione, ma è imperfetta: la ferita di Lucas è nell’anima, e neanche l’anno successivo, quando la comunità sembra averlo riabilitato e riaccolto, se ne è perso il tatuaggio, e il finale ci riserva una straniante sorpresa.
Mads Mikkelsen è gigantesco in questo film, ribalta se stesso, riesce a mantenere la tensione a livelli altissimi, con un senso di emotività trattenuta che ha un sentore molto kubrickiano. Vinterberg medesimo ammette che in sceneggiatura il suo protagonista era un banale uomo middle-class, uno “caduto per errore in un casino”, e non la creatura mite, sofferente, paterna, anderseniana e generosa che ci fa battere il cuore in questo film, dove i duetti con la straordinaria interprete di Klara (Annika Wedderkopp), e del figlio Marcus (Lasse Fogelstrøm), offrono un’emotività molto poco scandinava.
Un film con questo tema, che attiva meccanismi così potenti di rifiuto e rimozione, può difficilmente avere un grande successo di incassi, ma è un peccato anche perché la fotografia di Charlotte Bruus Christensen è pregevole sia dal punto di vista cromatico che dell’inquadratura, con angolazioni diverse e interessanti degli ambienti.
Difficile infine comprendere perché la versione italiana abbia cambiato il titolo originale da “La caccia” a “Il sospetto”, una litote inutile rispetto alla forza del tema che ha invece un valore simbolico sia per la vicenda del protagonista sia per la caccia stessa, intesa come arte venatoria, che diventa – nella sua violenza – metafora antropologica di quel mondo.