Mi piacerebbe poter recensire questo breve e potente gioiello di Girolamo De Simone, un cd che ascolto da un paio di mesi senza stancarmi, meravigliata della mia meraviglia nel riabbracciarne ogni volta gli accordi come amici smarriti; quel cadere della dita sui tasti del pianoforte che mi trafigge dipingendomi come una ragazza da ritratto ad olio ottocentesco. Mi piacerebbe poterlo recensire con le competenze giuste, poter andare oltre l’ovvio Satie di riferimento, al poco Debussy che conosco, al Bach che mi torna nell’orecchio forse solo per il suono della spinetta; mi piacerebbe poter spiegare cos’è l’accordatura persiana che ha usato su alcuni brani, far capire il lavoro immenso che ha messo in ogni nota, lo studio, la riflessione, la ricerca di melodie e di esecuzione, il valore di ogni sua esitazione prima di una nota a struggerla e farla cadere soffrendo.
Ma soprattutto far capire quanto di questo immenso lavoro e studio, per quanto spasmodicamente cólto ed erudito nella sua ricerca di frammenti antichissimi di canti religiosi arcaici, non ci sia orma tangibile e greve nei dodici pezzi che lo compongono. Non ci sono pesantezze contemporanee in questo album, chiunque può entrarci dentro lasciandosi scivolare nel suo liquido amniotico e sprofondarci dentro, abbandonarcisi.
Per questo ne scrivo questa non recensione, perché lo sappiate quanto è bello “Inni e antichi canti”, perché ce lo meritiamo tutti un album così, anche noi che non andiamo oltre l’ovvio Satie e il poco Debussy che conosciamo.