Questo è stato il primo racconto che ho scritto dopo anni di mutismo scrittorio, ed è una delle prime cose che vengono fuori in rete se uno cerca il mio nome. In parte, ho deciso di aprire un sito a mio nome anche per evitare che questo racconto fosse la mia “primaria” rappresentazione. Non perché non mi piaccia, ma perché volevo andare un po’ oltre. Con la fortuna del principiante, è uscito sia sulla rivista Origine del maggio 2003, che su BlackmailMag in quello stesso periodo. È dedicato a una persona a cui voglio molto bene.
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EMMA
Inverni lunghi, freddi, umidità appesa a filari di pioppi che finiscono solo perché finisce anche l’orizzonte. La casa-cascina perduta in tutto questo silenzio, tra Imola e Lugo. Giuseppe, il padre di Emma, la casa se l’é costruita a mano, da solo. Siciliano, terza elementare, uomo di tre parole al massimo, diventate due dopo l’incidente a Franco, il secondo figlio. Complicazioni al parto, anca rovinata e stampelle a vita, una stanza della casa trasformata in un’inutile palestra.
Quando il padre di Giuseppe muore, con la schiena strapazzata su un ettaro di terra vigliacco, lui vende casa e terreni e dalla Sicilia sale nell’imolese a cercare sopravvivenza più che fortuna, imparando a fare il muratore, con il sogno di ricomprare un po’ di terra e riscattare il padre e la sua schiena dall’alto di un trattore.
A Imola tramite un compare trova Renza, contadina minuta e timida, occhi acquosi facili al pianto. Anche lei a disagio al sabato in balera, più contenta tra galline e conigli. Stanza in affitto, poi 33 metri quadri tutti per loro – c’é Emma in arrivo. Dopo qualche anno di risparmi, finalmente un pezzo di terra, un trattore, e anche la licenza per costruire la Casa, quella vera, che con qualche prestito per il materiale piano piano viene su, il mattone della domenica su quello del sabato, e l’estate anche quello del lunedì fino al venerdì. Unica eccezione, i giorni dei gran premi di Formula Uno, con un amore autentico e viscerale per la Ferrari. Lacrime vere per giorni dopo la morte di Villeneuve, come se fosse stato un caro amico di famiglia. La Renza fa notte a cucire un drappo nero sulla bandiera del cavallino, che alla successiva vittoria di Maranello viene sostituita con una bandiera nuova, mentre quella a lutto la fanno incorniciare a giorno e la mettono all’ingresso, con dentro una piccola foto in primo piano di Gilles.
Intanto Emma cresce e va a scuola, con i suoi occhi blu normanni, non brilla ma va bene, fa sempre i compiti ed é molto ordinata, una della quale non c’é mai bisogno di preoccuparsi. Le insegnanti se la dimenticano, così come le sue compagne, a parte la Piera, con cui divide il banco dalle elementari al quinto ragioneria. Migliaia di chilometri su autobus blu di linea per campagne tutte uguali, orari mandati a memoria, ore a fissare di fuori, poco da raccontare anche a Piera, solo frasi dette e ridette, risatine stiracchiate, autisti a cui danno del tu.
Il sabato pomeriggio sullo struscio a Imola, fino a 15 anni solo a guardare e a ridacchiare, dopo invece a andare con qualche ragazzo al cinema pomeridiano, e più tardi in discoteca. Nessun vero amore, solo baci e toccatine, lingue salate di popcorn o dolci di liquirizia, profumi dozzinali spruzzati per nascondere un odore di campagna di cui si vergogna, e che in realtà non c’é.
È gustosa la Emma, piccolina e rotondetta, due belle tette grandi che cerca di nascondere ma é impossibile su un corpo di solo un metro e 50. Piacerebbe, perché ha il tipico corpo da porca che i suoi coetanei arrapati cercano per fare pratica sessuale, ma fa un po’ sfigata, con i suoi vestiti di maglina acrilica comprati alla bancarella del mercato del paese, le scarpe col tacco inutilmente alto e comprate due anni dopo la moda, rossetti troppo vistosi per quella bocca comunque da baci. Un suo compagno di classe una volta le ha scritto un bigliettino che quando si tira una sega pensa sempre a lei che glielo succhia. Emma, che non l’ha mai succhiato a nessuno, non ha fatto una piega, ha fatto finta di farsi una risatina e l’ha buttato nel cestino, né offesa né lusingata. Non gliene importa molto, cerca solo di essere come tutti, di avere qualcosa da dire alla Piera, sull’autobus la mattina. Domeniche a casa, ad aiutare la mamma con Franco, il fratellino zoppo, a cui vuole così bene. Si illude che migliorerà, hanno sentito parlare di un’operazione in Svizzera. Intanto anche lei tifa Ferrari, con il padre e il fratello. Comprano almeno una rivista a settimana, anche in pieno inverno, quando non ci sono neanche i test. A tavola si parla solo di Ferrari e, se proprio mancano gli argomenti, di automobilismo in generale. È un’esperta la Emma, ricorda tutto: date, nomi, cognomi e soprannomi, riconosce i piloti dal casco fino alla formula tre. Non capisce tanto di motori, a lei interessano le persone. Gli amici maschi non parlano troppo volentieri di Formula Uno con lei, si sentono meno virili per il fatto che lei che é donna ne sa più di loro, e alla fine Emma ne parla soprattutto con gli attempati frequentatori del Bar Sport, dove va a prendere il latte, aspettando che il Gianni le dica «Vieni mo qua Emma che mi spieghi come mai….».
Ma la sua vera dimensione di F1 la vive al GP di Imola: da quando c’é, l’evento a casa Izzone viene vissuto come una festa religiosa. Se ne parla da tre mesi prima a un paio di mesi dopo, e la vita di tutti i giorni gira su questo futuro o passato avvenimento. Da un pezzo Emma lavora all’autodromo nei giorni del gran premio. Figurarsi che la pagano anche, lei che pagherebbe per essere lì! Ha iniziato al controllo pass dell’ingresso Est, da dove passano anche tutti i piloti e i team managers. Chissà perché ma si ricordano il suo sorriso un po’ triste, e le ricambiano i saluti. Dopo un po’, iniziano a salutarla loro per primi. Fa tenerezza, fa simpatia, così tranquilla e serafica nel suo involontario e inadatto corpo da porca, esercita un’attrazione un po’ magnetica con le sue gran tette, gli occhi celesti e le labbra carnose. Su tutti, anche sull’organizzatore, che la conferma di anno in anno, fino a farla lavorare al controllo interno per l’accesso alla sala stampa e alle terrazze VIP, dove c’é il passaggio migliore. Piloti e Managers delle squadre ormai la riconoscono, e lei gli chiede –e ottiene– sempre qualcosa: autografi, adesivi, spille, fiammiferi, portacenere e anche qualche maglietta.
Ma il suo grande amore è Arnoux. Anche lui sempre gentile. Le piace tanto così bassetto, come lei, col suo accento francese. Da meccanico a pilota, si é fatto da solo, da zero, come il suo babbo. Ogni sera, prima di addormentarsi, Emma passa delle mezz’ore a fare elaborate fantasie d’amore con lui, della loro prima volta, di giri in macchina (guidando piano però, che Emma in macchina ha paura, e infatti non ha la patente) e passeggiate mano nella mano sul lungomare di Montecarlo, a scegliere lo yacht che lui le avrebbe regalato per il fidanzamento, celebrato dopo l’operazione felicemente portata a termine all’anca di Franco. È stato tanto carino l’anno prima, quando l’ha vista le ha addirittura chiesto «Come stai?», capito? Proprio a lei, di persona.
Emma ha 19 anni ma è ancora vergine, e in un certo senso è un po’ imbarazzata ad esserlo, ma ha deciso che non riesce a immaginarsi di fare l’amore con nessuno dei ragazzotti un po’ grezzi che ci sono in giro, vuole qualcosa di meglio, vuole il sentimento e anche un po’ di romanticismo. Ha deciso che lo farà con Lui, che lo farà innamorare, in occasione del prossimo GP. Deve essere René il Primo, un francese, che sedurrà e da cui si lascerà sedurre con tutto lo sdilinquire delle sue erre mosce. È un anno che l’ha deciso, dopo quel Come stai, ed ora lo attende con ansia al controllo pass, con tutta l’aspettativa di un anno di fantasie. Eccolo che arriva, con la tuta già addosso. L’ha vista, sì, l’ha vista, ma non l’ha neanche guardata negli occhi, ha solo alzato di fretta una mano, col viso buio e le palle girate. Emma conosce i suoi motivi di malumore, li ha seguiti tutti sulla stampa, ma la delusione è grossissima, come se lui l’avesse insultata o presa in giro. Si sente arrossire dall’imbarazzo con gli altri ragazzi del controllo, a cui aveva raccontato di quel Come stai? aggiungendo molti particolari, anche inventati, ma non veramente inventati, solo aggiunti, perché la storia fosse appena un po’ più carina, perché ci fosse qualcosa di un po’ più personale, qualcosa in più da dire sui quei 10 secondi di gloria dell’anno prima. Le bruciano gli occhi, cerca di fare un sorriso convincente, come se non gliene fregasse niente, e dice qualcosa sulle previsione del tempo per la domenica.
Per quel giorno non lo rivede più, e dall’energia di desiderio accumulato per quell’uomo in tutti quei mesi di fantasie anche erotiche le è venuta fuori una grossa carica di provocazione rabbiosa, e dalla vergogna con i colleghi una grande spavalderia. Si mette a fare la civetta un po’ con tutti, e quando alla fine della giornata di prove passa un altro pilota francese, L., le scappa detto al collega «Questo si che è un bel figo, non quel nanetto di Arnoux». Allora il ragazzo trattiene il pilota per la manica e gli dice «Visto che belle tette? Facci sopra un autografo!» Ridono tutti, anche Emma, spavalda e imbarazzata insieme, avvicinandosi al pilota con fare invitante e la penna. Mentre scrive l’autografo, lui le tiene il seno da sotto con la mano aperta, e nel suo italiano da Clouseau le dice «questò bello tavolò per escrivere». Lei sorride cercando di farsi vedere navigata, e magari un po’ indifferente.
La mattina dopo, Arnoux passa di corsa senza neanche guardarla, e lei si gira dall’altra parte facendo finta di non averlo visto. Ieri è stata la prima sera, da mesi, in cui a letto non ha potuto fare le sue belle fantasie, vergine senza amore e senza Montecarlo. Sogni come giocattoli rotti.
L. invece le fa un bel sorriso, passandole due volte molto vicino. La seconda, lei ha la chiara sensazione che abbia fatto un movimento con la mano apposta per sfiorarle di nuovo il seno. Qualsiasi cosa per non sentirsi come il giorno prima con Arnoux. A fine giornata, quando ormai non c’è rimasto quasi più nessuno in giro, anche Emma inizia a prepararsi al ritorno a casa. Si toglie la casacca bianca e rosa dei controllori, e resta con il suo vestito di maglina bordeaux. Ha avuto tanto caldo con quel vestito quasi invernale addosso, ma è il vestito che le sta meglio, quello che le toglie di più la pancia. È ancora delusa dal suo René ma è il GP di Imola, cacchio, non si può essere tristi dopo averlo atteso tutto l’anno. Si avvia verso l’autobus di casa, con i piedi stanchi su quei dannati trampoli, con la suola troppo sottile per quel ghiaino maledetto. Appena passato il ponte sul Santerno sente un colpo di clacson alle spalle. Si scansa, credendo di aver intralciato qualcuno, ma non passa nessuno e il clacson suona ancora. Si gira e in macchina c’è L. da solo, le offre un passaggio a casa. Emma si mette a ridere «Se mi accompagni finisce che ti perdi». «Bien, allora vieni a bere un aperitivo con me!».
Troppa fortuna, davvero non se l’aspettava, ma come è possibile che le stia succedendo davvero? Accetta e mentre lui si allunga ad aprirle la portiera, senza scendere dalla macchina, lei si raddrizza un po’ il vestito, mentre la bocca le si secca improvvisamente dall’emozione. Una volta seduta, non ha quasi coraggio di guardarlo in faccia, ma accetta subito di andare al suo Hotel per bere qualcosa. Chissà cosa, visto che Emma è astemia. Lui prende un bitter e lei lo stesso. È un po’ alcolico, se ne accorge subito, ma è tardi per cambiare e lo beve piuttosto in fretta, anche perché non sa cosa dire. Lui parla dell’Italia e delle belle donne italiane, non snob come le francesi, e racconta di una vacanza che ha fatto a Porto Cervo, lasciando intendere di grandi prestazioni. Lei non sa che dire, fa solo finta di essere stata anche lei in Costa Smeralda, ma i suoi collant neri troppo opachi non le reggono il gioco, e si sono raggrumati sul tallone dove batte la scarpa. Nasconde il piede dietro la poltrona, apre ma poi richiude la sua borsa, mentre – tanto per dire qualcosa – sull’appiglio Francia-Italia inizia a millantare amicizia con Ducarouge, il “Duca” (che le ha solo regalato due belle magliette tanto per disfarsene), ma la conversazione non decolla, ed è quasi sollevata quando lui guarda l’orologio. «Si è fatto tardi» dice lei prima che lo possa dire lui, ma invece lui la guarda e le fa «Non vuoi salire un attimo?».
Non sa bene che fare. È un po’ stordita, niente a che vedere con il poco alcol del bitter. Vorrebbe pensare ma le pulsa troppo il cervello. In qualcuna delle sue fantasie con Renè c’era un pezzo in cui lui la invitava a bere qualcosa in albergo, ma non ricorda più le sue battute, solo che lei era sicura di sé ed aveva un vestito nero molto elegante.
D’altronde pare che L. non sia molto interessato alla conversazione, le fa solo un sorriso e mentre si chiudono le porte dell’ascensore le sfiora con l’indice il sedere. Nella stanza, lei gli dice che ha bisogno del bagno, e solo quando si guarda allo specchio capisce che è impaurita. La mano che reggeva la tracolla della sua borsetta simil-pelle ha i segni delle sue unghie sul palmo. Però é decisa. Si farà. Si annusa le ascelle ma non puzzano, e non ha resti della piadina del pranzo tra i denti. Si vergogna quasi un po’ delle mutandine troppo sexy che aveva messo la mattina, pensando cosa?, si chiede adesso, quasi che fossero inadatte a una vergine. Si sente improvvisamente un’impostora, esce piano da bagno e lui si è già messo a suo agio sul letto, con indosso solo gli slip. Lei arrossisce, grata alla penombra della stanza. Le fa cenno di avvicinarsi. Lei si siede bordo al letto. Lui si fa una risatina e si tira su, mettendole la lingua in un orecchio. La lingua nell’orecchio le è sempre piaciuta. Anche Arnoux gliela mette sempre. È un buon inizio, cerca di rassicurasi ma le trema un ginocchio. Inizia a spogliarla, lei capisce che é il caso di fare qualche gemito. Lui apprezza. La bocca continua a essere secca, e quando lui finalmente la bacia le sembra di stare ingoiando un polpo. È secca anche tra le cosce, troppo impegnata a pensare a come dirgli che é vergine. Non sa bene che fare, lui gioca coi suoi seni, delicato ma un po’ meccanico. Di nuovo l’orecchio, le scappa un altro gemito, questa volta quasi vero. È rimasta solo con quelle ridicole mutandine di pizzo nero. Lui inizia a passarci sopra l’indice, fa un’altra risatina molto francese, e poi gliele toglie con abbastanza decisione. Emma allarga meccanicamente le cosce e mentre lui le si fa sopra inizia dire «devo avvertirti che sono ..» Ma la parola “vergine” le si strozza in un urletto di dolore che spiega immediatamente anche a lui la situazione. Si tira indietro un po’ sorpreso, le chiede quanti anni ha e se ha voglia di farlo. «19» e «sì» gli sembrano risposte più che sufficienti, quindi continua con appena qualche precauzione in più. Lei non prova quasi più dolore, ma nessun piacere. Le gambe restano aperte, non è più neanche tesa, non gliene importa più quasi niente. Lui per fortuna é bene attento a non venirle dentro, poi salta quasi fuori dal letto, prende un po’ di carta per sé e poi le lancia il resto del rotolo. Un’occhiata all’orologio. Poi le fa «Certo questi italiani non capiscono proprio rien de rien di ragazze, eh?».
Lei gli risponde con un debole sorriso e inizia a rivestirsi. Lui, sempre l’occhio all’orologio, le fa «Vuoi prendere una doccia» “Sì, e me la porto a casa” pensa lei «No grazie, vado a casa». «Hai bisogno di un passaggio?» «No grazie, stai pure tranquillo te».
In ascensore pensa “meno male che ho il vestito bordeaux, così se perdo altro sangue quando scendo dall’autobus magari non si vede. Quanto sarà durato tutto? Sono solo le 7, al massimo un’oretta. Faccio ancora in tempo con quello delle 19 e 26, che stasera a cena c’é pollo alla cacciatora”.