Straniamento è un sostantivo che ha spesso ragione di essere usato per circostanziare le narrazioni di Fabio Viola. Estraneo e poco comprensibile il mondo descritto, a linciare una realtà troppo banale, deludente. Ma stavolta Viola ci ha tenuti con i piedi su questa terra meschina e meneghina, che dissimula il suo essere provinciale fingendo eterna assenza di sorpresa e coolness (digitando questo vocabolo su Google il primo suggerimento è “coolness Milano”), cercando riparo dalla paura della noia, del nulla, attraverso un atteggiamento di «nichilismo addomesticato e ottimista». Temi che ricorrono dal suo primo romanzo (“Gli intervistatori”), ma che qui sono giocati meno sul filo dell’assurdo e dell’alienante per restare invece ancorati a un qualche senso di concretezza più reale. Forse proprio per questo più dolorosi, desolanti. Lontano dall’ambientazione nipponica di “Sparire”, questo romanzo che si svolge tra Roma e Milano è raccontato dal “solito” io narrante romano, che in questo caso è sia innamorato del Giappone che di una giapponese, Maki, la “Diva Futura”, sua compagna di vita.
Il vuoto esistenziale stavolta riposa sulle spalle di lei, sua l’ansia di esistere oltre le quattro mura, di studiare e applicarsi per diventare Famosa, a prescindere da qualsiasi contenuto, alla ricerca di una grandezza che si trasformerà in una grandiosità inconsistente e alla fine tragica, disattesa. «Il successo, quello è finito negli anni Novanta. Ora c’è solo la visibilità. Ci sono i retweet».
E per ottenere questo non è più necessario essere qualcuno ma simularlo. Maki si trasforma in Maky, porno cantante frigida e algida, spinta più da un’ansia di morte che di vita, bisognosa di affermazione per dare senso al suo esistere, ma incapace di viverne la felicità. Il successo come cantante e performer come antidoto alla crisi di mezza età, il bisogno di notorietà solo per se stesso, senza gioia ma solo conquista, conforto all’horror vacui.
Un romanzo molto più sentimentale e malinconico per Fabio Viola, più maturo, profondo. La sua prosa resta sempre spettacolare, con frasi e metafore che sono soufflé perfetti, che lui elargisce senza alcun sorrentinismo, anzi, con una certa schiva dissimulazione narrativa, come fosse pronto in ogni istante a voler evitare di vantarsene, persino di discuterne. Una scrittura ad ampi colpi di pennello, stavolta con tinte più affettive, svuotate da odî generalizzati nei confronti di un generico “tutti”, ricche di un contagioso amore per la sua seconda patria, il Giappone, a cui invia una dichiarazione d’amore dal suo esilio italiano.