Una recensione del meraviglioso libro di Lanfranco Caminiti che ho scritto per La poesia e lo spirito. Lo pubblico oggi, ché è il suo compleanno.
Ho iniziato Senza ieri sera, prima di addormentarmi. Nel sonno la cadenza delle parole pronunciate con l’accento scillacariddico di Lanfranco Caminiti ha continuato a suonarmi nelle orecchie, svegliandomi presto stamattina, da un sogno pieno di rimpianto e nostalgia. E ho finito di leggere.
Senza è un memoir della perdita di qualcosa che va oltre l’amore, è un canto dell’appartenenza. Non c’è altro filo che non quello delle fasi del ricordo e del pungolo del dolore, non c’è cronologia in queste lettere spaiate che sono all’improvviso tu eri e poi invece lei era, come ogni volta ci fosse un destinatario diverso, ma alla fine sono per tutti e di tutti, col loro tornare incessante di onde sulla riva, irregolari come singhiozzi. Lettere di amore e di morte di cui si ricorda la distanza infinita del prima e l’impossibile presenza dell’oggi. Su tutto regola lo Smarrimento e la volontà di non perderlo, quel senso ateo di eterno e di possibilità di attesa, di ritorno. Il tentativo di pettinare ancora i capelli amati per ritrovare ordine e regola, un futuro vagheggiato, rimuovere quello strappo mostruoso della violenza della malattia indifferente ai tuoi piani.
Le onde che singhiozzano a riva piene di pudore e senza voler lasciare spazio all’autocommiserazione, ma non riescono a perdere quella dolenza senza consolazione che tutti noi che abbiamo vissuto almeno un Grande Lutto conosciamo così bene. Diventa tutto universale. Anche se non siamo mai stati in quella casetta col terrazzo a Nicotera e non conosciamo le scale troppo strette per una bara o le sedie vuote sul terrazzo.
Ma ora sì. E quando nessuno di noi ci sarà più, quei luoghi esisteranno lo stesso e per sempre, come tutti i luoghi della Grande Letteratura.