Sono troppo troppo troppo felice che questo film di Aureliano Amadei sceneggiato insieme a Francesco Trento, autori insieme del memoir “20 sigarette a Nassirya” [Einaudi Stile Libero] abbia vinto di tutto alla sessione Controcampo Italiano della 67ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Venezia 2010.
Prima di perché Aureliano e Francesco sono due splendide persone, ok. Poi certamente perché avevo presentato io il libro a Einaudi anni fa, e ok anche questo. Ma questo valeva PRIMA di vedere il film. Ora che l’ho visto lo posso davvero gridare: andatelo a vedere, è un film stupendo!!!!!
L’ho recensito con un’intervista a Aureliano per l’Unità online, ecco qui:
Una storia molto personale, a Nassirya
Sarebbe davvero fare un torto a questo film pretendere che ponga e risolva questioni politiche e di morale universale, sarebbe persino ipocrita oltre che presuntuoso aspettarsi che la vicenda personale del regista, Aureliano Amadei, vivo per miracolo dopo essere volato con un piede spappolato nel cortile della caserma dei carabinieri a Nassirya durante l’attentato del 2003, lo abbia potuto trasformare da ragazzo scanzonato e anarchico in un contenitore di verità assolute, dispenser di opinioni inconfutabili. Non cercatele in questo film: cercate piuttosto del buon cinema, una pellicola vera, vibrante, emozionale, girata in modo interessante e contemporaneo, nulla in comune con le solite inquadrature pulite e banali da fiction televisiva. Al contrario, qui si usa la macchina da presa come la calligrafia di un linguaggio potente e dinamico che restituisce emozione e cinetica, come piace a chi il cinema vuole sentirlo sporco e appiccicoso addosso, vivo.
Ma attenzione: nessuno spettacolarismo per la lunghissima soggettiva del protagonista durante l’attentato, ma una sensazione da piano sequenza reale, gonfio di paura, angoscia di morte, sangue. Non ci sono eroi da fumetto, ma persone: è questa la chiave di lettura morale di questo film. Che siano militari o militanti, genitori o figli, ognuno è rappresentato con le sue forze e le sue debolezze, senza stereotipi o preconcetti. Il punto di vista del protagonista, dell’alter ego del regista interpretato con grande talento da Vinicio Marchioni, è totalmente soggettivo e umano, sentito a pelle.
Ed ecco la storia di “20 Sigarette”: Aureliano Amadei nel 2003, a 28 anni, viene invitato da un regista amico di famiglia (Stefano Rolla, poi morto nella strage) a girare un film in Iraq. Nonostante sia un giovane antimilitarista anarchico, decide di cogliere l’occasione; ma il suo viaggio dura giusto il tempo di un pacchetto di sigarette prima di finire in una lunga degenza ospedaliera che lo lascia zoppo e un po’ sordo, ed emotivamente stordito. La scrittura di un lungo e intenso memoir insieme al talentuoso scrittore e sceneggiatore Francesco Trento, co-autore anche di soggetto e sceneggiatura di questo film, diventa libro con Einaudi Stile Libero “Venti sigarette a Nassirya”, e da questo volume il passo al film è stato relativamente breve, consegnandoci un’opera prima realmente pregevole, tanto da strappare al pubblico il più lungo applauso di questa edizione del festival del cinema di Venezia, e da vincere la sezione Controcampo Italiano.
Dai cortometraggi a una grande produzione: è stato difficile gestire tutto, o ti sei goduto una bella sensazione di onnipotenza?
Trovarsi di fronte alla guida di un carro armato di sessanta motivatissimi professionisti fa una certa impressione! Ma hanno prevalso l’adrenalina e l’emozione, e credo di essere riuscito a mantenere la concentrazione sul set. A volte con l’aiuto di acqua e zucchero…
Questo film è davvero fatto bene, tutto sembra tranne che un’opera prima anzi: sia nella fotografia che nel tipo di inquadrature è totalmente moderno e dirompente. Si sta muovendo qualcosa anche a livello internazionale?
Ce lo auguriamo, credo che – non so per quali strane alchimie – il cinema italiano abbia qualche leggera ripresa, stanno uscendo cose interessanti: c’è da essere ottimisti. Una delle missioni di questo film affidatami dalla produzione era quello di fare un film atipico per il panorama cinematografico italiano, spero di esserci riuscito almeno in parte. Credo che un grande merito sia quello di aver lavorato con una troupe fortemente motivata, che ha lavorato all’americana: chi c’era lo ha fatto con passione, non per “tradizione familiare”. Penso che questo cambi in positivo il cinema italiano.
Aureliano, rimettere le mani nelle viscere del trauma più grande della tua vita è stato più angoscioso o terapeutico?
È riduttivo parlare di esperienza terapeutica perché l’ho girato per un pubblico, non come forma di elaborazione personale. Però è molto vero che mi ha fatto scoprire tante cose, soprattutto che il tentativo di rimozione è inutile e sbagliato. I problemi si superano ricordandoli, facendoli emergere dalla memoria. È l’unico modo di farci pace quindi in questo senso è stato certamente terapeutico. E non è stato mai angoscioso anche se ho pianto e sofferto sul set. I momenti più duri non sono stati angoscianti però, perché sono stati quelli in cui ho scoperto qualcosa di nuovo di me, e quindi sono stati liberatori. Anche perché sul set abbiamo vissuto pure momenti di totale cazzeggio e divertimento…
Ti aspetti che qualcuno obbietti alla tua visione così “umana” di questa vicenda invece che farne un veicolo di contenuti antimilitaristi?
No, non me l’aspetto e credo che le uniche obiezioni relative a questo fino ad ora siano state concettuali e prese di posizione scelte senza aver visto il film,. Cose che del resto ci si può aspettare…