Laura Costantini mi ha coinvolta in un progetto di scrittura “E se parlassimo di calcio?” che ha voluto essere una versione al femminile della frenesia calcistica da mondiali, da pubblicare sul blog che tiene insieme a Lori, l’amica con cui scrive e firma i suoi romanzi. Di calcio ne so quanto di curling, per cui ho scritto solo un ricordo di quando vivevo in Svezia, una storia che mi frullava da un po’. Eccola:
Il novanta è stato l’anno di molte cose. La mia laurea, il mio trasferimento a Stoccolma, il mio primo lavoro fisso. E i mondiali di calcio in Italia, ovviamente.
Io che quando scrivo mi costa quasi fatica metterci la maiuscola sulla parola Italia.
Mai stata nazionalista, neanche in senso folcloristico. E infatti mi sono laureata in Lingue Straniere, esterofilamente, con la media del 29.7; e con il centodieci in saccoccia passavo il mocio per terra nel negozio Benetton in centro a Stoccolma, il mio primo giorno di lavoro. Pensando che era marzo, e il freddo sarebbe durato fino a giugno.
È così. Il tepore arriva abbastanza all’improvviso a quelle latitudini: è inverno, poi a un certo punto un giorno smette di piovere e fa 25 gradi, e tutto sorride; improvvisamente ci si sente liberi, svagati, ridanciani. E quell’anno di Trottolino amoroso e dudùdadadà c’erano i mondiali a casa, lontano.
Suzie, la manager del negozio, un giorno esce a pranzo e torna con una cassetta presa in un chioschetto per strada: si chiama Italia con le lettere maiuscole colorate verdi bianche e rosse, e inizia con Notti magiche cantata dalla Sgianna nazionale e Edoardo Bennato, quello che un giorno crede di essere giusto e l’altro un grande uomo, che io snobbo dalla fine degli anni settanta.
Snobbo tutto, soprattutto l’Italia dei mondiali, degli stadi nuovi fiammanti che forse facciamo brutta figura di fronte al mondo ché non riusciamo a finirli – come al solito. Leggo le canzoni dalla custodia della cassetta, col sopracciglio alzato, io che non mi sono ancora saziata di Disintegration dei Cure. Figurati Amedeo Minghi, col Trottolino amoroso e dudùdadadà, che tristezza. Ma le faccio un sorriso a Suzie, ché so che l’ha comprata anche per gentilezza nei mie confronti; metto il nastro nello stereo e lo faccio partire. È un sabato e c’è troppo lavoro per potersi fermare a cambiarlo: continua ottuso a girare nell’autoreverse per ore. Tutto il pomeriggio inseguendo goal sotto il cielo di un’estate italiana, con pallide svedesi che giustamente al primo sole vogliono canotte e gonnelline, vestitini a fiori, leggerezza, abbronzatura. Le capisco. Anche io voglio caldo garantito, salire sopra i trenta, afa come una sciabolata sul collo, braccia sudate, ricerca smaniosa dell’ombra, e del ponentino, il venticello magnifico della mia Roma lontana e tangenziale-munita, ché alla fine i lavori sono finiti e tutti possiamo da San Giovanni arrivare sparati all’Olimpica senza semafori, dritti a sbattere contro lo “Stadio Olimpico, Olimpico Stadio”, come diceva la rubrica telefonica di quel personaggio tristissimo di Un sacco bello.
Come il veleno delle pagine del Nome della rosa a ogni giro di cassetta con la Sgianna nazionale e il Bennato riesumato mi avvicino a casa, all’Italia, a cui inizia a spuntare la maiuscola, impreziosita dagli stadi nuovi di zecca finiti in tempo a cui si arriva con le tangenziali sempre di zecca nuove, e gli occhi del mondo puntati su di noi, detentori del Colosseo, di San Pietro e della fontana di Marcello come here, con la svedese Anita da perdere la testa.
Non ricordo cosa abbia fatto l’Italia, in quel mondiale, so solo che, per qualche giorno, anche io nella mente l’ho scritta con la maiuscola.