Oppure, piuttosto, quella che non ci riesce: né il mondo, né i suoi abitanti. Perché il cielo è coperto da nuvole di pioggia instancabile, pioggia che diventa fango e sembra anzi colare già in questa forma vischiosa e inarginabile, maligna, priva di speranze.
Un set abbastanza filmico per questa ucronia di Paola Ronco, alla sua seconda prova su carta dopo il suo romanzo di esordio, “Corpi estranei” uscito con Perdisa, che avevo recensito nel 2009; per "La luce che illumina il mondo" l'editore è Indiana, e troviamo una Ronco più cupa e no-future, con un respiro e uno sguardo ampi su un mondo che conosciamo fin troppo bene. Un’Italia squallida e penosa, di cui non ci vengono risparmiati i particolari, dove ogni parte fa il suo gioco, a tratti disumanizzandosi.
La città di Sumonno è divisa in tre parti non interloquenti tra loro: il quartiere di elite, CentroRubino, quello della media borghesia, CittàProgresso, e quello poverissimo chiamato ZonaSviluppo, che patisce in maniera eclatante il risultato dell’incessante diluvio: l’esondazione del fiume della città che travolge abitazioni precarie abbattendo la vita di troppi dei suoi abitanti. Contemplano la scena con emozioni dalla più totale partecipazione al più algido distacco tutti i protagonisti del romanzo. Dal giornalista idealista Maurilio Sori, a Toni, il misterioso body-guard, fino a arrivare alla famiglia Neri, il potentato locale, e infine all’uomo dei poteri occulti, Florestano Leoni, con la sua bruciata e prevedibile compagna Melissa, che abbandoneranno la scena come due Daisy e Tom Buchanan.
Quasi tutti i personaggi emergono soprattutto dai loro dialoghi, che Paola Ronco gestisce con la consueta abilità, nonostante si abbia spesso una sensazione di incapacità di comunicare con onestà e profondità, e soprattutto con partecipazione a quanto dell’altro non coinvolga se stesso.
Indifferenza come peccato mortale in un’aria da fine del mondo in cui prende piede un rigurgito di eresia catara che si mischia ad attentati che hanno come obiettivo la destabilizzazione. Tutto appare fragile: la società, la vita, il sentimento, che in nessuno si compie ma resta appeso, o inespresso o non provato, in una paralisi joyciana che neanche le bombe paiono capaci di scuotere.
Comincio con una curiosità: ho avuto la sensazione che il padre Costanzo Neri stesse al figlio Ramsete come Gianni Letta sta(va?) a Silvio Berlusconi. Un parallelismo che è solo frutto della mia fantasia?
Ti dico la verità, non avevo pensato a questo parallelismo. Nella mia testa, più che altro, immaginavo certe grandi famiglie abituate a gestire il potere in maniera quasi feudale, da una generazione all'altra, e alle loro relazioni. Per una piemontese cresciuta negli anni '80, le leggende patinate che si tramandavano sulla famiglia Agnelli, per esempio, fanno parte inevitabile dell'immaginario. È vero, comunque, che nelle mie intenzioni tra Ramsete e suo padre non c'è un reale rapporto affettivo, quanto proprio un'obbligata convergenza di interessi; è una convivenza forzata, dettata soltanto dai legami di sangue, così come del resto accade con il fratello minore di Ramsete, Osiride.
A prescindere da questo gioco, cosa hai voluto raccontare, e perché?
Avevo voglia di raccontare una storia che parlasse di quello che stiamo diventando, o che rischiamo di diventare, cercando di distaccarmi il più possibile dalla cronaca. Tante volte leggo i quotidiani, e spesso gli eventi mi sembrano talmente grotteschi, vissuti poi come sono in tempo reale, consumati e dimenticati in fretta, da pensare che forse il modo migliore per cercare di interpretarli può essere quello di spostarli in un altro tipo di realtà, per vedere che effetto fanno.
In particolare, mi interessava parlare delle dinamiche del potere e dell'informazione, e del bisogno di trascendenza che comunque, anche nostro malgrado, tende ad affacciarsi nei momenti di grande crisi.
Un tema politico forte è quello del riconciliare il capitolo storico della lotta armata al presente; qualcosa che in Italia, al contrario della Francia, non è stato mai fatto. Che ne pensi di questo argomento?
La penso come uno dei miei personaggi, il giornalista Maurilio Sori; un paese che cerca di rimuovere quello che è accaduto senza elaborare le ferite subite, e senza fare il tentativo di capire, non riuscirà mai ad andare molto lontano. Arriverà comunque un momento, nella storia, in cui la stessa questione tornerà a bruciare, magari con modalità differenti, ma sempre riportando a galla tutto il malessere dei segreti malamente nascosti.