Aspettavo questo film da tempo, non sono rimasta delusa. Un’opera ancora grande e sontuosa da parte di un regista che mette un tale filologico amore nei confronti di J. R. R. Tolkien da riuscire a creare personaggi più pittorici del libro, e a far lottare due montagne tra loro come fosse un evento naturale e possibile. La fusione tra produzione e post-produzione è talmente priva di cesure e suture da far diventare il flusso scenico, narrativo e tecnologico un unicum filmico perfetto. Non ho voluto vedere il film in 3D la prima volta (tornerò tra qualche giorno) per godermi di più la storia, il “mio” Tolkien, e credo di aver fatto bene: sarebbe stata una distrazione da baraccone, un gioco sicuramente divertente e emozionante, ma non il cuore di ciò che volevo trovare, o meglio ri-trovare, 36 anni dopo aver letto Lo Hobbit.
Infatti la fortuna di essere nata nel ’64 e di aver avuto un dotto cugino che si è preso cura della mia cultura libresca prestissimo è che ho divorato Tolkien mentre ero ancora alle scuole medie, cioè cinque minuti prima che i neofascisti ci mettessero sopra un cappello talmente invadente da togliermi ogni desiderio di leggerlo. Per fortuna, dico, perché altrimenti non mi sarebbe così chiaro, oggi, che Tolkien parla proprio di tutto il contrario: la sua opera è sicuramente ricca di riferimenti a un certo tipo di mondo, ma solo per criticarlo. E l’orrore delle battaglie che narra è forse il suo modo di superare il ricordo della sua breve ma miserabile e segnante esperienza di vita di trincea della Prima Guerra Mondiale, opponendo alla brutalità bellica concetti cristiani come la fratellanza, la lealtà tra persone che cercano di proteggersi e stare unite di fronte al Male nemico.
In questo senso prende un sapore di paradosso amarissimo e tragico che il giorno dell’uscita in sala di questo film abbia coinciso con il primo anniversario della strage compiuta l’anno scorso a Firenze ai danni di alcuni senegalesi (due sono morti – Samb Modou e Diop Mor – mentre un altro – Mustapha Dieng – è rimasto tetraplegico e afono a vita) da parte di un uomo simpatizzante di Casa Pound ed esperto a suo modo di Tolkien, eventi di cui parla compiutamente il collettivo Wu Ming in questo pezzo uscito sul loro blog Giap.
Ci sono molti esimî esperti di Tolkien in Italia, due dei quali hanno risposto a qualche mia domanda sugli aspetti più filologici del film rispetto al romanzo; prima di lasciare la parola a loro, voglio solo esprimere alcune altre brevi impressioni su questo splendido film. La premessa doverosa è che si tratti di una pellicola che nasce per essere la prima di tre episodi: se non si ha chiaro ciò si troverà molto lungo l’introitus dove il protagonista, Bilbo Baggins, viene convocato da Gandalf, incontra i Nani, e decide infine di partire con loro per il suo Viaggio Inaspettato. La lunghezza dell’inizio credo abbia la sua ragione nel voler dare la dimensione del personaggio di Bilbo: un uomo, o meglio, uno hobbit placido, che ama stare a casa a godersi le sue sicurezze, i ricordi di sua madre, il buon cibo, e il vino della sua dispensa, la pipa. Un essere “piccolo” che pensa di avere desideri piccoli, costruiti su convinzioni oneste e buone, elementari, quotidiane. È su questa semplice e pura visione del mondo che Gandalf poggia la sua scelta: quello che vede in Bilbo Baggins è l’eroismo delle piccole cose, ed è questo che cerca di spiegare alla Signora degli Elfi, Galadriel, quando le dice che mentre Saruman, il Grande Mago, pensa al Bene come a qualcosa che si esercita attraverso un Grande Potere, lui è convinto che il Bene trionfi piuttosto attraverso “semplici atti di gentilezza e amore”, gesti piccoli ma continui che tengono il mondo.
Credo che questa sia la giusta chiave di lettura di questo film, la lente attraverso cui setacciare gli avvenimenti, i personaggi, l’obbiettivo a cui tende non solo questo primo episodio, ma probabilmente l’intera trilogia. In questo senso ho chiesto a Wu Ming 4, (grande esperto tolkieniano e autore di un bellissimo romanzo – Stella del mattino – di cui lo scrittore inglese è uno dei protagonisti), se secondo lui era errato vedere nel Bilbo placidamente chiuso a casa sua un alter ego di Tolkien (come sostengono alcuni), nel senso di dargli modo di elaborare la sua scelta di arruolarsi volontario nella Prima Guerra Mondiale, facendone un atto come di qualcuno che non sa resistere al “richiamo all’avventura”. La sua risposta è netta: «Tolkien non si arruolò affatto per rispondere al richiamo dell'avventura. È vero che una parte della sua generazione vide la guerra come occasione di rinnovo sociale e politico, un modo di vedere bruciare il vecchio mondo, ma non è il suo caso. Lui si arruolò semplicemente perché nel 1914, per quelli come lui, figli della piccola borghesia che aveva avuto accesso al privilegio degli studi universitari, era semplicemente impensabile non farlo, non servire la patria nel momento della chiamata; sarebbe stato visto come un segno di ingratitudine e avrebbe comportato l'ostracizzazione sociale. Fu la generazione dei tenenti e dei sottotenenti. La propaganda la dipingeva come una guerra giusta: non una guerra coloniale, tra l'altro, ma per liberare il Belgio e la Francia invasa. Tolkien era immune dal richiamo dell'avventurosa vita militare: pur restando convinto fino alla morte di avere combattuto una guerra giusta, odiò per tutta la vita il militarismo, e in particolare l'esperienza avuta sotto le armi, che gli aveva fatto perdere tempo prezioso, mai più recuperato. L'identificarsi di Tolkien con Bilbo, secondo me, è in effetti nella Battaglia dei Cinque Eserciti, alla fine de Lo Hobbit, quando il protagonista si mette l'elmo, si infila l'Anello, diventando invisibile, e poi viene pure colpito da un pietrone e sviene, risvegliandosi quando è tutto finito. Per Tolkien fu più o meno così: dopo pochi mesi di guerra si ammalò di influenza da trincea e passò la maggior parte del conflitto fuori e dentro i sanatori. Il suo corpo mise in atto una vera e propria resistenza al ritorno al fronte: ogni volta che stavano per dimetterlo e rimandarlo a combattere, arrivava una ricaduta della febbre. Febbre della quale, finita la guerra, non rimase più traccia. Potere della psicochimica corporea.
Detto questo, credo che in effetti Bilbo sia “anche” un alter ego di Tolkien, ma piuttosto in senso generale che non connesso alla sua esperienza bellica. La dialettica tra tentazione domestica e tentazione avventurosa ci appartiene universalmente e caratterizza la vita di ognuno di noi. Tolkien non fa eccezione in questo senso. Ma nemmeno io, o te, o chiunque altro.»
Un’altra cosa che ho chiesto a Wu Ming 4 è relativa all’episodio in cui Bilbo sceglie di non uccidere Gollum, cosa che è stata fatta oggetto di interpretazioni ambigue: è stato un atto di saggezza o debolezza? La premessa è che quando Gandalf offre a Bilbo la spada elfica lo ammonisce dicendogli che “Il vero coraggio si basa non su quando prendere una vita ma su quando risparmiarla”. E infatti Wu Ming 4 non ha dubbi: «Risparmiare la vita di Gollum è quanto di meno ambiguo ci possa essere in tutto il ciclo dell'Anello. La saggezza e la debolezza non c'entrano nulla. È la pietà a muovere Bilbo in quel frangente. In effetti il suggerimento di Gandalf viene adottato alla lettera da Bilbo (e successivamente da Frodo). Se leggi il passo del romanzo è molto chiaro che Bilbo non infilza Gollum per due motivi: a) prova pietà per lui; b) non è capace di uccidere un essere vivente a sangue freddo senza che questo lo stia attaccando.».
Ho chiesto invece a Roberto Arduini (presidente dell'Associazione Romana Studi Tolkieniani) un parere filologico generale sulla resa filmica del libro da parte di Peter Jackson, se era soddisfatto o deluso, e quali erano a suo avviso i punti deboli e quali i punti di forza: «Sono uno dei soddisfatti. Jackson ha saputo mantenere lo spirito dell'opera di Tolkien, pur facendone alcune modifiche alla trama e inserendo molto materiale delle Appendici e dalle altre opere dell'autore. Tutte le modifiche però non hanno comportato cambi sostanziali nella narrazione. Tra i punti deboli, forse l'aver “resuscitato” Azog. Un antagonista serviva, naturalmente, ma forse si poteva usare il figlio di quest'orco, Bolg, che appare nel finale del libro. Così penso che alla fine Azog sostituirà anche in quella parte il figlio. Altro punto debole è forse l'avere anticipato per così dire l'eroismo di Bilbo. La sua crescita avviene troppo presto, anche se capisco la necessità di avere un climax nel primo film.
I punti di forza? Su tutti, la caratterizzazione dei personaggi: Bilbo, Thorin, i Nani. Tutti molto ben delineati (Radagast forse un po' troppo!). Poi la scena degli indovinelli e Gollum. Direi che passeranno entrambi alla storia del cinema. Infine, i paesaggi sono qualcosa di indescrivibile, bellissimi. C'è però un aspetto che non riesco ancora a definire, cioè il tono del film. Per me è al tempo stesso un punto di forza e una debolezza. Tutto il tono del film è epico, molto in linea con la precedente trilogia. Ma al tempo stesso è uno stravolgimento del libro, che è un crescendo dai toni fiabeschi a quelli epici degli ultimi capitoli. Capisco benissimo le difficoltà nel rendere una cosa del genere e non so se ci fossero alternative».
Un’altra cosa che ho voluto chiedere a Roberto Arduini: c’è una parte della critica che pone molto l’accento sul cattolicesimo di Tolkien, vedendolo in molti aspetti dell’opera, ad esempio nella rappresentazione di Galadriel come di una sorta di Madonna. Tu concordi con questa lettura? «Hai detto bene. È una delle tante letture che esistono sulle opere di Tolkien, portata avanti soprattutto in Italia e da qualche studioso negli Stati Uniti. Ma l'autore stesso era contrario a quest'interpretazione. Tolkien scriveva per il puro e semplice piacere di scrivere, cioè si preoccupava (prima di tutto) che chi leggesse i suoi racconti fosse divertito e compiaciuto dalle sue storie quanto lui. È normale che qualcosa del suo universo interiore potesse “passare” nell’opera, ma egli non amava fare né prediche, né tanto meno sermoni, e lo dice espressamente. Nonostante fosse un cattolico praticante, voleva solamente divertire. Scrisse infatti: “Il Signore degli Anelli è stato scritto per divertire (nel senso più alto del termine), per essere leggibile”. In una lettera, scrive espressamente: «Non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la “religione”, oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario».
Voglio concludere con un’ultima considerazione sugli aspetti più prettamente cinematografici di quest’opera: ho visto il film nella versione italiana, e sono rimasta molto colpita dalla qualità del doppiaggio, soprattutto musicale: il pezzo corale è di una bellezza disarmante e commovente, sentitelo nel trailer, vale davvero da solo il prezzo del biglietto.