Un film fatto bene paga sempre, e questo è proprio ottimo cinema, sotto ogni aspetto. Argo, il film di cui Ben Affleck è sia regista e attore protagonista, e coproduttore insieme a George Clooney, sta avendo un successo senza ombre di critica e pubblico. Non è I tre giorni del Condor, certo, anche se ne condivide molti aspetti, ma ha una sceneggiatura da manuale (quasi un manuale di sceneggiatura, vien da dire), ambientazioni perfette, ritmo, suspense, dialoghi limati, e truccatori e parrucchieri che devono vincere un Oscar: incredibile la loro capacità di rendere persino la grana dei pori della pelle degli anni ’70-’80, è qualcosa difficile da spiegare se non si è visto il film, nel senso: i colori, la pellicola che sembra quella di allora, un gusto vintage che fa un effetto docu-fiction (persino il marchio usato dalla Warner Bros. per i titoli è quello d’epoca), e ricorda quel brano degli Afterhours dove Manuel Agnelli racconta di un suo sogno notturno dicendo “La luce era diversa negli anni settanta, ho riconosciuto anche quella”.
Per di più, non c’è dubbio che Affleck regista si sia posto efficacemente il problema di dove mettere al macchina da presa ad ogni scena, con buoni risultati, il che era reso ancora più difficile dal fatto che era anche il protagonista del film – è così difficile dirigere se stessi. Fuori misura giusto la troppo improbabile scena finale in cui le sgangherate macchine della polizia iraniana seguono un Boeing B-747 fino allo stacco dei pneumatici, operazione per la quale ci sarebbe voluta una monoposto di F1, ma è pur sempre cinema.
Il problema del film, passato quasi inosservato, è nei contenuti: il messaggio revisionista e manipolatorio della s(S)toria sembra essere passato indenne all’analisi di molti critici, anche non statunitensi. Per questo ne scrivo: non si può vedere un film sulla CIA come fosse un Bond movie, prendendo le parti dei Buoni, odiando i Cattivi. Perché gli accadimenti di cui si parla qui (che sono comunque molto romanzati rispetto alla realtà, consiglio di leggerne in rete), hanno come protagonisti delle Persone, degli esseri umani veri. Iraniani che hanno subìto una dittatura da parte dello Shah Reza Pahlevi, un tiranno foraggiato e appoggiato dagli Stati Uniti che dopo aver governato dal 1941 ha poi sancito il proprio potere con un colpo di stato nel 1953, trasformando la monarchia da costituzionale in assoluta, cominciando a perseguitare i suoi oppositori con una repressione operata dalla SAVAK, la polizia segreta addestrata proprio dalla CIA. Insomma, no. Non si può scegliere di raccontare un evento perché è cinematograficamente gustoso, e poi operare mistificazioni e colpi di spugna per tentare di raccontarlo in modo “gradevole”, facendo una sorta di compromesso buonista con la storia. Il film si dipana tutto su questo filo sottile: si cerca di dire delle “verità” ma in modo manipolatorio.
Si comincia infatti con un prologo affidato a una voce femminile dall’accento parsi che narra la storia dell’Iran snocciolando tutti i comprensibili motivi per cui il tiranno Reza Pahlevi è odiato, e il paese sia risentito nei confronti degli Stati Uniti che lo ospitano invece di riconsegnarlo al popolo che vorrebbe processarlo per i suoi crimini. Questo esordio politically correct mette lo spettatore nella disposizione d’animo “progressista” giusta per approcciare il resto degli avvenimenti come se provenissero da un punto di vista “amico”, e reitera questa illusione con altri artifici narrativi quali ad esempio far passare il protagonista agente della CIA come “buono” perché mostrato in certe scene un po’ come un outsider nel gruppo, qualcuno che fa fatica a compiere la sua nobile azione di salvataggio degli ostaggi perché nella camera dei bottoni non ha abbastanza credito. Qualcuno che lo fa perché ci crede, non perché è il suo mestiere. Uno che a quelle sei persone bloccate a Teheran e in pericolo di vita ci tiene personalmente. Un buon padre di famiglia, che si è separato dalla moglie ma dopo questa missione torna a casa e ricompone la frattura, tanto puro è il suo cuore.
Anzi tanto il film ha bisogno di far passare per buona la CIA, che alla fine i Cattivi sembrano essere gli uomini del governo americano, che non danno credito all’azione e revocano il finanziamento della missione a un secondo dalla fine (fatti mai accaduti nella realtà, anche perché i biglietti aerei degli ostaggi vennero acquistati dalla moglie dell’ambasciatore canadese).
Ma non può bastare lo sguardo limpido e la barba rassicurante di Ben Affleck a fare della CIA un organismo dalla parte dei Buoni, non deve, accidenti! Questa pellicola non fa nessuna riflessione politica, oltre che tralasciare la storia, presenta Reza Pahlevi come “cattivo” torturatore senza dare adeguato peso al fatto che non si tratta di sue scelte personali, ma quelle di un tiranno che è andato al potere e ha governato unicamente perché è ciò che gli Stati Uniti hanno reso possibile; si pone l’accento sui suoi torti senza evidenziare che siano il frutto del sistema della Pax Americana nel suo midollo. Non si può fare un thriller assolutorio manipolando la storia, non si possono lasciare da parte le migliaia di crimini gravissimi compiuti dalla CIA negli anni, solo perché ci si è imbattuti in un episodio gustoso da sceneggiare.
Per il re nudo non basta una foglia di fico, almeno non per me.