Svezia, il virus della socialdemocrazia

Göteborg – Foto di Mikael Moiner.

Da italiana in Svezia, sono tanti gli interrogativi che mi vengono posti in questi giorni, soprattutto a seguito dell’articolo recentemente pubblicato da Repubblica.it, ma anche a quello precedente sullo stesso tono de Il Fatto Quotidiano, dove si è dato risalto anche a un certo sprezzo del pericolo combinato a una svalutazione di chi, influenzato da ciò che accade in Italia, ha preferito da subito un comportamento cauto e orientato all’autoisolamento.
Dico subito che io sono tra questi: in una sorta di ossequio della legge a distanza, mi sono attenuta alle disposizioni italiane mitigate da un buon senso nordico: nessun contatto ravvicinato e frequentazioni di negozi solo per beni di prima necessità, ma libertà di uscire per passeggiare osservando distanze di sicurezza. L’idea che centinaia di migliaia di bambini italiani siano tappati in casa senza poter prendere una boccata d’aria – che per la prima volta sarebbe persino pulita e non solo quel mefitico aerosol che offrono le metropoli italiane – è un pensiero doloroso, di cui ha ben scritto Rosa S. ospitata dal sito della Wu Ming Foundation.

Ma tornando alla Svezia, è vero che qui viga la sensazione del salone delle feste del Titanic dopo l’impatto con l’iceberg. Vediamo di capire perché.
Sin dall’inizio è stato dato tutto il peso delle valutazioni alla Folkhälsomyndighet (Autorità per la Salute Pubblica, ovvero l’ISS svedese) e soprattutto allo stadsepidemiolog (epidemiologo di Stato), Anders Tegnell.
Tegnell non è una persona affabile ed empatica, sembra più uno scienziato di stampo Asperger che non qualcuno preposto a salvare una nazione. Ma la Svezia è un paese che, a prescindere dal colore politico del governo in carica, resta sempre e comunque un paese di ispirazione socialdemocratica. Per quanto i segnali di scricchiolio di questo cardine di sistema inizino a essere purtroppo sempre più evidenti, una mentalità socialdemocratica comporta una lunga serie di cose, in maggioranza positive, che cercherò di spiegare.
La prima è che il Bene Comune sia sempre sovrano. Data questa certezza, le scelte del governo che diventano norme e leggi, vengono in generale rispettate, punto e basta − anche da chi non è d’accordo. Un paese “socialista” detta regole nella convinzione che siano per il bene di tutti, persino quando vanno in direzione opposta al socialismo. E l’idea di socialdemocrazia che è stata impostata in Svezia sin dagli anni ‘50 e ‘60 e poi cementata da Olof Palme (che per il momento ancora regge, ma chissà per quanto) è che chi governa lo faccia per il bene di tutta la nazione, non nel proprio interesse. Sarebbe troppo lungo entrare qui nei dettagli dell’attuale quadro politico svedese, dove esiste un 20% di elettorato nazionalpopolare (magari ne scriverò a parte in un’altra occasione), ma vorrei solo far notare che in questi giorni in cui il Paese di fronte all’emergenza torna alla sua anima comune (la socialdemocrazia), il partito nazionalpopolare (Sverigedemokraterna, SD) sta perdendo qualche punto di consenso.
Torniamo a questo animo socialdemocratico rispettoso dello stato e del bene comune: qui in Svezia a tutti, anche ai rifugiati con permesso permanente di soggiorno, viene data la possibilità di studiare, attraverso un prestito d’onore. Nessuno deve restare indietro, e per tutti c’è la possibilità di raggiungere qualsiasi obiettivo a prescindere dalla propria provenienza sociale. Anche qui il paese sta iniziando a scricchiolare, ma è ancora così per il momento, e questo comporta che ci sia una grande serietà nel campo dell’istruzione. Persino troppa. Qualsiasi professione in Svezia ha una sua preparazione, anche la più semplice. Io vengo da un Paese dove esperienza e talento contano molto di più di un pezzo di carta, mentre qui anche per lavoretti che in Italia si considerano appresi dopo due mesi di tirocinio esistono corsi biennali. Il risultato è che qualsiasi professione ha un altissimo grado di competenza che raramente viene messa in discussione. E dato che le scuole sono standardizzate e pensate perché tutti raggiungano un certo livello di saperi, la competenza di chi ha un pezzo di carta non è in discussione.
Per questo in Svezia il parere dell’epidemiologo di Stato conta più di quella dello stadsminister Stefan Löfven, il presidente del consiglio. E qui torniamo dunque a Tegnell, l’arcigno epidemiologo che agli inizi di questa crisi ha espresso quel piccolo velato disprezzo nei confronti di come l’emergenza fosse gestita in Italia, a significare che la Svezia non si sarebbe mai trovata nella stessa situazione, diffondendo un’immagine errata della nostra sanità pubblica. Cosa che appare anche smentita, se diamo fiducia alle statistiche pubblicate in uno ottimo pezzo che parla di salute e neoliberalismo pubblicato qui dove si attribuisce alla Svezia una capacità di 5,8 posti di terapia intensiva per 100 mila abitanti rispetto ai 12.5 dell’Italia. Le esternazioni dell’epidemiologo hanno persino costretto il nostro ambasciatore italiano a Stoccolma, Mario Cospito, a un comunicato stampa di protesta. Devo dire che Tegnell ha toccato veramente una corda sbagliata con me: la sanità pubblica italiana, nonostante tutte le critiche possibili e nonostante sia stata picconata, è e resta una delle migliori al mondo, su questo punto non ammetto discussioni. E la mia speranza è che questa crisi la renda ancora più forte di prima.

Ma torniamo in Svezia, un paese aperto alla diversità e alla multiculturalità anche se sempre con quel filino di atteggiamento da primi della classe che rende i suoi cittadini oggetto di qualche irrisione da parte delle altre nazioni nordiche. È vero che la Svezia primeggi su quasi tutto, e non è certo difficile provare orgoglio nazionale per questa nazione, che amo moltissimo per mille motivi. Ma in questa situazione non posso che essere perplessa. La delega della politica alla scienza è in teoria molto lodevole e auspicabile, dà prova di una laicità dello stato che è l’opposto della pericolosa e fuorviante passeggiata del capo di stato Vaticano per le strade di Roma, in violazione alle disposizioni vigenti dello Stato Italiano.
Ma l’iperspecializzata e competente Svezia avrebbe forse fatto meglio a non dare una delega così in bianco a un gruppo di teorici di una scienza che è in questi giorni messa alla prova della più grande sfida degli ultimi cento anni. Non perché non si debba dare ascolto alla scienza, ma perché ci sono delle condizioni di realtà pratica e non teorica che impongono valutazioni diverse. Per fortuna si nota in questi ultimi giorni che stanno ottenendo maggiore spazio di parola i medici, e possono rapportare una situazione di grande gravità per quello che riguarda le strutture mediche e ospedaliere, massacrate da un paio di decenni di governi neoliberisti.
La Svezia è piena di eccellenze in campo medico, e una volta raggiunto un ospedale sembra davvero di essere nella migliore clinica del mondo. Ma ci si arriva veramente in pochi, e solo se gravemente malati. La medicina preventiva praticamente non esiste, il concetto di medico di base neanche. E quello che si è detto qualche settimana fa qui in Svezia sul fatto che in Italia si fosse dovuto “scegliere chi far morire” (ben prima che fosse realmente così), vale in Svezia da molto più a lungo: si rinuncia alla prevenzione perché non ci sono soldi abbastanza per fare sia prevenzione che cura, e quindi si curano solo pazienti conclamati e basta. Il costo di questa prassi è ovvio per tutti.

Ma l’acido Tegnell ha ritenuto di fare comunque i suoi commenti altezzosi sull’Italia, forse in parte perché il mondo della medicina accademica svedese è stato colpito da un grosso scandalo interno quando un chirurgo italiano, Paolo Macchiarini, si è rivelato essere un novello Frankenstein. Non so se la storia sia nota in Italia, mi colpisce come la voce di Wikipedia esista in moltissime lingue ad esclusione dell’italiano, ma qui è stato un caso nazionale: Macchiarini, assunto come chirurgo dal prestigioso Karolinska Institutet, ha abusato del suo ruolo professionale causando la morte di alcuni pazienti. La questione Macchiarini ha prodotto una grave ombra sul prestigio del nostro paese nella comunità medica qui in Svezia, purtroppo, e forse spiega in parte quell’atteggiamento di iniziale spregio nei confronti delle scelte italiane sul COVID-19.

Tegnell rivendicava un punto di vista scientifico condiviso inizialmente con la Gran Bretagna, che invece è qui considerata l’eccellenza europea, e non appena Boris Johnson ha fatto marcia indietro, Tegnell ha accusato il colpo, prendendo un atteggiamento molto più umile, probabilmente anche perché nel frattempo il governo ha ricevuto indicazioni diverse da parte delle rappresentanze della comunità medica svedese, che al di là di tante chiacchiere ipotetiche su curve e immunità di gregge, ha fatto presente che non avevano risorse adeguate per affrontare la situazione.
Un punto da considerare, a dire il vero, è che ci sono differenze nelle strutture familiari, in Svezia. Mentre da noi l’interazione tra generazioni è assolutamente abituale e costante, qui è abbastanza rara. Ricordo che avevo condotto una sorta di piccola inchiesta tra i miei amici italiani e svedesi su quanto spesso sentissero i propri genitori al telefono, qualche anno fa. La media ottenuta era più o meno questa: mentre i miei amici italiani sentivano i genitori in media una volta al giorno, gli svedesi non avevano colloqui più frequenti che ogni due-tre settimane. Chiaro che con queste premesse un’ipotesi di “isolare” anziani e persone a rischio in modo da limitare il contagio a un numero clinicamente gestibile di pazienti ha un contorno più realistico. Ma queste sono solo fantasiose proiezioni teoretiche che non tengono conto di quanto contagioso sia questo virus.

In Svezia vige all’oggi un paradosso: le misure governative a dir poco blande (solo ora il numero massimo di persone consentite per eventi pubblici o privati è sceso da 500 a 50, ma per il resto tutto business as usual) sono quasi in contraddizione con la realtà quotidiana di ristoranti vuoti, mezzi pubblici talmente poco frequentati da far ridurre il numero delle corse (e quindi di nuovo pieni di chi non può fare a meno di muoversi!!), fabbriche chiuse, uffici deserti. Sembra una di quelle scene da film il cui il professore in classe dice che la lezione è terminata dopo che quasi tutti gli studenti sono già usciti al primo suono della campanella un minuto prima.

Le critiche ci sono ovviamente, ma la Svezia del Bene Comune resta per lo più compatta dietro al suo leader Löfven, perfettamente e adeguatamente socialdemocratico, ed è contenta del suo operato, e della linea di Tegnell. In solitudine non solo nordica ma europea, quasi mondiale, la Svezia appoggia i suoi leader, ché nella crisi si sta uniti e acritici, e prevale il senso del dovere, l’obbedienza alle leggi, il comportamento da gregge.

Non sono d’accordo con le scelte di questo paese ai sensi di questa crisi sanitaria, ma mi inchino con rispetto al suo livello di democrazia, socialista finché dura, che fa rispettare scelte che altrove avrebbero scatenato sommosse.

Per cui abbasso gli esperti presuntuosi, ma viva la socialdemocrazia svedese!

Popoff
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