Senza oggetto o aggettivo. Solo corpi.

La possibilità di sopravvivenza delle specie animali è collegata alla capacità di valutare e giudicare. Se ci fosse indifferenza rispetto allo stato fisico degli esseri che ci circondano, non saremmo sopravvissuti altrettanto bene. Ci saremmo accoppiati con esemplari non abbastanza sani e forti, e il leone avrebbe rincorso la gazzella sbagliata – e forse sarebbero entrambi estinti. Valutazione e giudizio prediligono ciò che è ai nostri occhi “bello” laddove traduciamo la “bellezza” visiva come indice generale di salute e fertilità.

Questa è, semplicemente, la Natura. Che si prende cura di sé stessa per garantire la propria sopravvivenza di specie. Tentare di disattivare il nostro istinto a valutare e giudicare gli esseri viventi che incontriamo nel nostro cammino (che sia un animale aggressivo o un esemplare di homo sapiens bellicoso o infetto) sarebbe geneticamente “pericoloso” per la nostra sopravvivenza. E tuttavia, questa valutazione e giudizio sono diventati piuttosto superflui: siamo miliardi su questo pianeta, lo abbiamo colonizzato praticamente tutto e nel bene (e purtroppo nel male) siamo completamente affermati come specie.

La nostra capacità di discernimento ha perso il suo scopo primario, e tuttavia il peso dato alla valutazione estetica dei nostri corpi non solo non si è esaurito ma al contrario diventa sempre più invadente e sistematizzato. Il corpo imperfetto è − soprattutto per le donne, ma non solo − il più grande motivatore di acquisti di una colossale e inquinantissima produzione industriale. Capi di abbigliamento, prodotti per l’estetica e l’igiene per il corpo, industria del “benessere”, chirurgia estetica.

Potrebbe anche valerne la pena, al limite, se ci desse una felicità duratura. Ma la verità è che tutto questo sforzo economico e temporale che sosteniamo non ci porta comunque a volerci più bene ed essere felici con/di noi stessi, dentro il nostro corpo: serve piuttosto, talvolta, a farci disprezzare di meno. Quei tre chili buttati giù, quel taglio di capelli, quel fondotinta, quel paio di jeans, quel reggiseno, servono solo a quietare per un po’ la voce devastante della critica con cui ossessioniamo il nostro corpo, a darci quella piccola sufficienza fino al momento successivo in cui notiamo un nuovo nemico, un nuovo ostacolo che ci rende così diverse da quell’esemplare femmina adolescente deliziosa e sexy che ha venduto il diritto di utilizzo dell’immagine del proprio corpo a un’azienda che lo esercita per la vendita di un prodotto. Che sia un bikini, un brano musicale o un treno di pneumatici, indifferentemente.

E mi arrabbio con me stessa, ché passo almeno una mezz’ora al giorno ad avere paura di invecchiare e imbruttire. E ciò nonostante ho deciso di smettere di tingere i miei capelli e lasciare che si veda che sono diventati bianchi. Perché voglio lottare contro l’odio per il mio aspetto, smettere di sentirmi vecchia e inadeguata accettando semplicemente di essere chi sono fino in fondo. Di essere quella che esattamente sono. Con le rughe, i capelli bianchi e 4 taglie in più. Pazienza.

Se l’umanità sopravvivrà alla distruzione ambientale che sta operando sul proprio pianeta, la mia speranza è che iniziamo a vivere nei nostri corpi occupandoci solo del fatto che siano il più sani possibile. Che smettano di essere un oggetto contemplativo e un ricettacolo di aggettivi descrittivi per essere piuttosto e semplicemente ciò che ci rende possibile esistere, qui e ora, su questo pianeta, in questa forma. Credo che un modo per ottenere questo risultato sia anche quello di rivolgerci allo stato interiore di una persona piuttosto che quello esteriore: dire “ti trovo bene” invece di “sei sexy con quei jeans”, “sono contenta di vederti in armonia” invece di “quanto sei bella”, o “mi fa così piacere che tu stia passando un buon periodo” invece di “ma che brava che hai perso quei chili in più”. Disaggettivare il corpo per disoggettivarlo. Forse possiamo cominciare da questo a fare una piccola rivoluzione.

La poesia e lo spirito
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