Rest in peace

Lo scorso novembre ero in vacanza a San Diego, California, da una coppia di amici. Lei si chiama Mimi ed è una donna splendente: ha passato i 70 anni ma dimostra quelli del suo molto più giovane compagno. Una donna significativa per la mia vita, conosciuta su un aereo che sono riuscita a prendere per pura ostinazione, a New York, quindici anni fa.

Stavamo tornando da Los Angeles, in macchina, di notte. C’era un bellissimo buio da deserto, intorno a noi. Poco traffico, luci rosse e gialle sulla strada, un leggero brusio prodotto dalla loro auto iper-ecologica che consuma per 100 chilometri quello che fa il mio motorino in 20.
Nel silenzio morbido della macchina verso le dieci squilla il cellulare di Mimi: è suo cugino, un uomo poco più giovane di lei. Ha perso sua moglie per un cancro, dopo qualche anno di lotta inutile. La voce della mia amica si fa velluto, ascolto, accoglienza. Lui le dice che non sa cosa farà per il Thanksgiving, il Giorno del Ringraziamento. Negli Stati Uniti è la festa della famiglia per eccellenza, più del Natale, occasione di intimità che celebra anche simbolicamente la pace tra colonizzatori e nativi americani. E lui non sa dove trascorrerla. Non vorrebbe stare solo, ma sa che se va da sua figlia ci troverà un’atmosfera festosa, bambini che strillano eccitati, leggerezza e risate; un incubo. Cosa fare?

Ricordo il senso di pietà e dolore per la storia di quest’uomo sconosciuto, il suono appena udibile della sua voce grave, sentita attraverso il cellulare di Mimi nell’abitacolo della macchina. Ricordo distintamente il mio desiderio di consolarlo, aiutarlo; ricordo di avergli mandato una carezza di energia dal mio quarto chakra. E il mio pensiero di cosa avrebbe fatto da solo, per quel giorno, il suo primo Thanksgiving senza sua moglie. E nella mia tristezza mi sono immaginata una via d’uscita per lui: un posto per persone sole e non festose, dove avrebbe potuto rifugiarsi. Avrei voluto che esistesse un luogo così, che lui lo potesse trovare in un annuncio di giornale, che ricevesse quel sostegno.

Questa empatia notturna mi ha seguito fortemente per molte ore, finché ho deciso che tornata a Roma ne avrei scritto una storia, un racconto di sollievo. Ma è diventato un racconto lunghissimo, alla fine: un breve romanzo dove a questo uomo ho dato un nome importante per la mia vita, James; una storia dove affronta il suo lutto, con l’aiuto degli altri.
Purtroppo però l’uomo per cui il mio cuore si è addolorato nel deserto buio non ce l’ha fatta: si è suicidato, ieri. Lo capisco. Non sono angustiata dal suo gesto, che è un grido di vita sottratta, ma dal fatto che se è arrivato a compierlo vuol dire che ha passato dei mesi di inferno. Mi fa piangere il dolore che ha patito. Mi dà sollievo che ora sia di nuovo con lei, nelle Grandi Praterie. Riposa in pace, Maynard, ti voglio bene.